Il sacrificio che rende felici
«Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi », «Pregate perché il mio e il vostro sacrificio siano graditi a Dio »: sono le parole dell’Eucaristia.
Ma che cos’è il sacrificio?
Questa parola per noi evoca solo cose negative. È come un valore sinistro, che significa pena, tristezza, rinuncia. Sentiamo spesso la gente lamentarsi: «è una vita di sacrifici… mi comporta tanto sacrificio». Tutt’altro è il volto biblico e religioso del “sacrificio”.
Per secoli il sacrificio è stato il modo normale di pregare della gente. I contadini prendevano i primi frutti del raccolto, oppure un animale dalla stalla, e dicevano: « Questo non lo voglio mangiare, non lo voglio vendere. Lo voglio offrire alla divinità, lo voglio “distruggere” perché nella vita non c’è solo il mangiare e il vendere. Io sono nulla di fronte alla divinità! Tutto io ho ricevuto gratuitamente. È giusto che io restituisca, che io lo offra gratuitamente. Così lo rendo sacro (sacrum-facere)».
Noi non siamo più capaci di pregare con questa spontaneità: quei frutti bruciati, quell’animale immolato per noi sono solo spreco.
I cristiani non offrirono più sacrifici in quel modo si attirarono molte critiche. Tra la gente molti erano scandalizzati e dicevano: « Questa nuova religione è una religione di ateismo: non fanno più sacrifici! ».
I cristiani, in realtà, rispondevano: « Non abbiamo più bisogno di offrire animali della stalla o i frutti dei campi. Il nostro Signore, Gesù, è lui che si è offerto! È lui la vittima! ». E S. Paolo commenterà: « Ecco l’offerta che vuole il Signore: non gli animali ma la tua vita! Devi offrire, devi portare sull’altare, insieme al sacrificio di Gesù, il tuo sacrificio».
Come siamo distanti da questa concezione della fede e della religiosità!
Noi non siamo più capaci di questo sacrificio!
Non che nella nostra vita non esistano più sacrifici. Ci lamentiamo continuamente di farne tantissimi. Pensiamo a quanta fatica, a quanti stress sul lavoro. Pensiamo a come spesso ci mortifichiamo per vivere secondo lo stile di oggi, bisogna vivere: correre da una parte all’altra, non avere più un minuto di tempo… Pensiamo alle rinunce che, alle volte, si fanno per “mantenere la linea” e vivere secondo la moda. Tutto questo però non ha nulla a che vedere con il sacrificio religioso. Cambia l’obiettivo: noi siamo disposti a fare rinunce se queste portano a una utilità, se ne abbiamo un vantaggio, se con le nostre rinunce guadagniamo un utile o una considerazione sociale.
Noi siamo sempre meno capaci di dono, siamo sempre meno capaci di gratuità!
Allora come potremmo celebrare l’Eucaristia?
Inevitabilmente, se non siamo capaci del “sacrificio” del dono gratuito e concreto di noi stessi, l’Eucaristia è un rito che non “parla”. Non si vede motivo di aderirvi. Se si partecipa, ci si annoia! Non si ha da celebrare, nulla da dire.
L’Eucaristia esige che si riscopra il valore religioso del sacrificio nella vita di tutti i giorni, e al tempo stesso, attribuisce un valore altro alla necessarie rinunce e alla fatica del vivere: il valore del dono.
Pensiamo all’altare, punto centrale dell’aula liturgica.
L’altare è a forma di tavolo, ricorda l’ultima cena di Gesù. Quel pasto non fu consumato da un’allegra combriccola che si ritrovava per fare festa. Fu il testamento di una vita consumata in amore. Per questo la liturgia esige che l’altare sia di pietra, per ricordare che l’eucaristia si celebra sul Calvario! Si prega imparando a dare, imparando a offrire.
Ma siamo ancora capaci di pregare?
Il mito dell’autorealizzazione il principio di utilità, la regola del mio vantaggio, il criterio dell’interesse distruggono la possibilità della preghiera. Pregare quando ne abbiamo bisogno, invocare solo per domandare, sperare solo di avere sono pratiche che facilmente la psicologia può descrivere come proiezione dei nostri bisogni. C’è religione solo quando c’è dedizione. Nella fede cristiana questa dedizione è estremamente esigente: riguarda non una “pratica” ma la vita.
Il valore religioso del sacrificio lo racconta metaforicamente il pane. I chicchi di grano sono frantumati, ridotti a farina. Impastata, essa è cotta nel forno. E diventa fragranza. Poi, il pane vien spezzato e condiviso. E diventa vita. Morte e risurrezione (vita) si rimandano reciprocamente, come avvenne al Calvario, luogo di morte e risurrezione.
noi possiamo vivere solo se diventiamo “un pezzo di pane” gli uni per gli altri! Solo se mi faccio pane per chi vive con me, la mia vita ha senso. Le cose che nella vita valgono (l’amore, la pace, la serenità), non si possono acquistare. Si possono solo dare e ricevere in dono.
La regola della vita autentica non è l’interesse, è la gratuità. Questa verità noi l’abbiamo smarrita. Ci ritroviamo così a essere incapaci di preghiera e insensibili all’Eucaristia.
Oggi, nelle nostre case, spezzando il pane pensiamo alla sua storia: il seme che in autunno viene gettato, muore… e poi nasce il germoglio e la spiga… e poi il grano che viene raccolto, macinato, cotto e distribuito, spezzato, mangiato. È la metafora del sacrificio religioso, cioè del dono.
Noi ci nutriamo del sacrificio! Solo il sacrificio ci sostiene! Solo il dono, la gratuità e l’amore, danno alimento alla nostra vita. Senza questo pane spezzato possiamo avere molte cose, ma poco di ciò che rende umanamente felici.