Ciò che conta è amare
Non esistono sentimenti capaci più dell'amore e dell’affetto di rigenerare le persone, di risvegliare la gioia dell'esistere, di dare consistenza all’identità personale. Nessuna esperienza ha, oggi, la forza di convinzione e la potenza emozionale quanto la relazione affettiva. Le gioie e le gratificazioni più intense, come pure le sofferenze più distruttive e le delusioni più tormentose, avvengono, infatti, nei nostri mondi affettivi.
I nostri affetti sono, infatti, le esperienze nelle quali noi ci aspettano di essere considerati in tutti gli aspetti della nostra persona e di essere ritenuti unici.
La persona umana non può nascere, crescere, vivere se non nel calore umano, nell’affetto, nell’amicizia. La forza vitale che ci fa affrontare la fatica e il peso quotidiano non viene da noi, la riceviamo, come la pianta riceve la spinta vitale dalla luce del sole e dall’humus della terra.
L’amicizia, l’affetto e l’accoglienza che riceviamo, ci offrono momenti di gioia intensissima che guariscono le ferite della vita, che ricompone la nostra identità e rafforzano la nostra fragilità facendoci sperimentare, come per la prima volta, le parti più profonde e nascoste di noi stessi, suscitando energie e risorse impreviste.
Sono cose che tutti sanno, perché ogni persona le vive, le sperimenta. Lo sa anche lo scriba che interroga Gesù e che il Maestro gli riconosce: “Non sei lontano dal regno di Dio”.
Eppure, davanti a questo dato ovvio della vita c’è dell’imbarazzo: “E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”. Come mai? Perché proprio l’amore da cui proveniamo e per il quale viviamo è il nostro nervo scoperto. Abbiamo un bisogno totale d’amore (tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza...), sappiamo che il nostro amore dona la vita agli altri e a noi stessi, ma sperimentiamo tutti i giorni la nostra radicale incapacità di amare.
Gesù stesso dice: “Amerai”. Il verbo è al futuro. L’amore è sempre oltre le nostre capacità. L’amore è un’azione continua, un itinerario infinito. L’amore è un proposito che siamo costretti a ripetere ogni giorno, perché, ogni giorno, sarà da noi disatteso.
Per indicare questa nostra drammatica incapacità i primi cristiani hanno dovuto addirittura “cambiare” nome all’amore. La lingua greca lo chiamava “eros” che dell’amore indica la reciprocità: do e ricevo. Giusto. Ma l’amore è un’altra cosa: se non faccio il primo passo escludendo ogni calcolo, senza attendermi reciprocità, non amerò mai, in senso autentico. I primi cristiani hanno allora cominciato a usare un’altra parola, quasi dimenticata: “agape” per indicare non la nostra capacità di amare ma la gratuità assoluta di Dio.
Ogni storia d’amore autentico inizia con la confessione della propria incapacità: io non so amare (e quindi non fidarti troppo di me), Lui è l’amore; se lo lascio entrare nella mia vita, allora anch’io saprò amare (almeno un po’ di più).
Prova di autenticità della fede è la concretezza di questo processo ciclico che essa provoca e la qualità dell’esistenza, umile, sincera e proattiva che stimola e produce. La religione che si riduce a formalità, folclore, tradizione devozionale è impotente nei confronti dell’incapacità di amare.
Si presta invece bene a coprire la nostra immaturità psichica.