Nobiltà e giustizia
Gesù incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti.
C’è qualcosa di particolare in quest’uomo che insegna: capacità, sapienza, prodigi...
Lo stupore provato tuttavia non porta alla fede. Gesù lo sa bene. Il vangelo non può che stupire perché nuovo, bello, potente. Ma di stupore non si alimenta la fede. Perché? Lo stupore è meraviglia senza intelligenza. Stupore ha la stessa radice di stupidità. C’è spesso uno stupore che istupidisce (la tecnologia, lo spettacolo, il pettegolezzo...). La fede richiede certo la stupore della bellezza, ma esige anche l’intelligenza. È la meraviglia che i compaesani di Gesù non riescono a provare.
Anche nella religione abbondano le situazioni in cui si è attratti dallo stupore (di certe tradizioni, di certi riti, di certe pratiche...) ma che non generano alla fede. Possono anche deviare in superstizioni...
Il primo interrogativo di questa domenica riguarda quindi l’intelligenza della fede: quanto siamo disposti a investire nella conoscenza che il vangelo richiede?
“Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Senza conoscenza non c’è amore e viceversa.
Il secondo interrogativo viene dalla domanda (stupita) degli abitanti di Nazareth: “Non è costui il carpentiere?”. Gesù, un modesto lavoratore qualsiasi: <> (piccolo artigiano).
Ciò che trovano incomprensibile e inaccettabile è che sapienza e prodigi (di parole e di fatti) possano venire da un carpentiere. Dal lavoro delle mani non può venire nulla di dignitoso; il lavoro delle mani va lasciato ai servi, agli schiavi. Proprio così insegnavano gli intellettuali del tempo. Conosciamo il loro ragionamento: le mani assomigliano troppo alle zampe; non ci differenziano dagli animali. Umana è solo la mente. Chi è sapiente nella parola non può piegarsi all’umiliazione della mani!
Non così per Gesù: mani e mente non si possono disgiungere. Il fascino della parola di Gesù, la sua autorevolezza sta proprio qui. Le sue parabole, così comprensibili e fascinanti all’ascolto, parlano sempre di ciò che fanno le mani. Che siano le mani delle donne che impastano la farina o spazzano la casa, o quelle degli uomini che guidano l’aratro e spaccano le zolle per gettare il seme, sono esse che scrivono la vita e fanno la storia.
Allora l’interrogativo: “Quanta dignità attribuisco alle mie mani, quando lavorano o servono”. Guardando le mani che lavorano (le mie ma anche quelle dei nuovi schiavi di oggi) penso sempre che Dio ha scelto di essere un tékton, dalle mani callose, per accompagnare la sapienza della parola (il logos)? Trovo davvero lì il criterio della nobiltà e della giustizia?