Pasqua: vincere la paura, accogliere il nuovo


Ogni Pasqua è un’occasione per lasciarci interrogare sulla fede che abbiamo in Gesù e per comprenderlo più a fondo. Talvolta, nelle nostre personali vicende o nello sguardo che diamo sul mondo attraversiamo l’oscurità del venerdì santo. Chi tiene alla sua fede non può non sentirsi toccato dal fatto che le chiese si svuotano, i preti mancano, la rete delle parrocchie ha delle crepe sempre più profonde. E non c’è segno che questa tendenza s’interrompa. Quando una forma di fede, cui eravamo abituati, va in crisi non è però la fine ma la trasformazione dell’esperienza religiosa. La crisi della religione organizzata colpisce soprattutto la chiesa cattolica. Non si vede solo nella diminuzione dei praticanti ma ancor più dalla distanza tra ciò che la chiesa professa e il modo in cui i credenti singolarmente intendono la fede, i comportamenti e le opinioni che esprimono. Nella liturgia e nella predicazione si sentono pronunciare parole che ognuno tende a interpretare a modo proprio. Crescono forme di devozione non centrate sull’essenziale ma spesso su una paura del mondo che paralizza la capacità di ragionare criticamente e di testimoniare la liberazione del Vangelo. L’eccesso di immagini di violenza e di disorientamento cui assistiamo non sta portando a un risveglio spirituale ma piuttosto a un intorpidimento della coscienza. Abbiamo una capacità limitata di comprensione e di compassione. Nella nostra sofferente società, di simpatia umana e di fraternità, ce n’è poca. A volte ci prende un senso di straniamento e di solitudine che ci angoscia. Chi però resiste a queste notti oscure, presto o tardi, potrà vivere la luce del mattino di Pasqua.
La fede non è finita ma cerca una nuova forma, nuovi mezzi espressivi, nuovi compiti sociali e culturali. Non scompariranno le parrocchie ma cambierà molto la loro organizzazione. Non sarà più la chiesa di prima. Chi crede nella Pasqua si fida di ciò che la Parola di Dio gli raccomanda: “Non avere paura! Continua solo ad aver fede” (Mc 5,36). Gesù risorto bussa da dentro la chiesa e vuole farla uscire dalle sue paure per raggiungere il mondo e, in particolare, i poveri, gli emarginati, i feriti dalla vita. La invita a comprendere con coraggio i segni dei tempi, per disporsi al cambiamento. Il Risorto chiede alla sua comunità di offrire risposte competenti, convincenti, comprensibili alle domande vitali dei nostri contemporanei, a superare confini, ad aprire percorsi. Se tocchiamo le ferite di Gesù nei dolori e miserie dell’umanità di oggi, allora potremo con verità esclamare davanti al Risorto: “Mio Signore e mio Dio”, come fece Tommaso. La Pasqua è la passione che lo Spirito mette nel credente. Ci sono compiti nel mondo di oggi che sono impossibili senza passione. La missione della comunità è di riempire le parole della Pasqua con azioni coraggiose e profetiche, superando la tentazione del clericalismo, che è l’egocentrismo della chiesa.
Prima di ricevere il nome “cristiani”, i seguaci di Gesù furono chiamati “quella della via” forse per indicare il carattere peregrinante della fede. La metafora della “via” esprime bene il coraggio di cercare Dio assiduamente, in modo nuovo e più profondo, lasciando le sicurezze del passato per avanzare verso il nuovo. Per sviluppare pienamente la cattolicità, cioè il farsi tutto a tutti, le parrocchie dovranno diventare innanzitutto luoghi di adorazione e contemplazione ma anche di incontro e dialogo, dei veri centri spirituali, che si specializzano nell’accompagnamento spirituale.
L’esistenza cristiana, infatti, ha lo stile dell’opera d’arte: siamo l’unico “dipinto” che possa rappresentare Cristo risorto. La vita bella, buona e felice di chi testimonia il Vivente rende visibile l’Invisibile. Siamo chiamati a essere lievito della storia, a uscire nell’areopago della cultura, non a barricarci in chiesa. Cristo, infatti, non va cercato tra i morti (le cose perdute di un passato che non può ritornare) ma occorre attenderlo nella Galilea pagana di oggi, dove lo troveremo sorprendentemente trasformato.

 




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