Il cammino della libertà


C’è un cammino da fare per ritrovare noi stessi, (e nella profondità della vita, la fede). È un percorso che dalla negazione conduce alla liberazione. Sono precisamente i passi che compie la samaritana, ben descritti dal genio letterario dell’evangelista Giovanni. Ripercorriamoli, perché sono anche i nostri.
Il primo passaggio è una presa di distanza da Gesù. Questa donna si nega all’incontro. Gesù la invita, fa il primo passo, e chiede semplicemente un sorso d’acqua. La samaritana è scostante: Come mai tu mi chiedi da bere? Io sono una donna e, stando a come si usa fare, tu non dovresti neanche rivolgermi la parola. Inoltre sono una straniera, per te. Tu sei giudeo e non puoi che giudicarmi un’eretica, una diversa.
Questa resistenza all’incontro, la viviamo tutti. Sappiamo bene di essere sempre sotto gli occhi del prossimo. Gli altri ci giudicano, ci valutano, ci pesano, ci mettono a confronto. Il giudizio c’incute timore e ansia. Indossiamo allora una maschera e recitiamo un copione. Siamo abituati, nei diversi ambienti umani che frequentiamo, ad adeguarci alle aspettative. Abbiamo imparato quale sceneggiatura interpretare, quale parte personificare, cosa fare, cosa dire. Cerchiamo in fondo di essere come pensiamo che gli altri ci vogliano.
C’è dunque una prima forma del nostro peccato: il peccato dell’adeguamento. Mettiamo da parte convinzioni e coerenza e indossiamo una maschera. In questo modo, però, non ci lasciamo più trovare. Non avviene alcun incontro; sfuggiamo anche a noi stessi.
Questo peccato si combatte attraverso la semplicità e la schiettezza. E la virtù della povertà. Gli altri ci giudicano dalle apparenze; allora togliamole tutte. Amiamo essere come siamo: poveri ma liberi e autentici. In questo modo vinciamo la dipendenza dalle maschere.
Gesù non desiste. Continua a invitarla, a fermarsi per parlare con lui. Insistendo ancora su quell’acqua che ha nella brocca, fa compiere alla samaritana un secondo passo.
Questa donna, che ha paura e non vuole aprirsi, a questo punto diventa non solo scostante ma anche aggressiva: Possibile! Non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo. Come fai a dirmi che sei tu a darmi l’acqua? Chi pensi di essere, sei forse più grande del nostro padre Giacobbe?
Un secondo livello del nostro peccato coincide con l’atteggiamento che la tradizione biblica chiama il “peccato della mormorazione”. Criticare gli altri, pensare male del prossimo, sparlare della gente diventano attività continue, quasi ossessive.
Il peccato della mormorazione è asfissiante come un’erbaccia infestante che avvelena l’anima. Per estirparlo, occorre “tirarne via” le radici. Bisogna confessarlo e dire a se stessi, con altrettanta ostinazione: Sono sempre pronto a pensare male degli altri. Sono portato a criticarli, ma, a ben vedere, in realtà ciò che proietto sugli altri sono i miei difetti e le mie delusioni. Rispondo subito con giudizi. Sono pronto a vedere più il male che il bene. In questo modo avveleno il mio ambiente: la mia casa, i miei vicini, il posto di lavoro, la comunità.
È interessante l’indicazione che i maestri spirituali hanno offerto per sradicare questa mala pianta. Invitavano a diventare del tutto indifferenti alla critica, a considerare “perfetta letizia” anche la denigrazione da parte degli altri. Arrivavano perfino a suscitarla, comportandosi a volte provocatoriamente, nel modo di presentarsi, di vestire, di vivere. Consideravano questa forzatura un espediente per diventare impermeabili alla mormorazione.
C’è ancora un passaggio, il terzo, prima della liberazione.
La samaritana, a un certo punto, si arrende e si apre alla confidenza. Concede fiducia a quello sconosciuto, dal quale però si sente capita, interpretata. Incomincia a dire la verità: “Non ho marito”. A quel tempo non avere marito era segno manifesto di una condizione di vergogna. Era come lo svelamento di una sorta di scandalo. Non poteva esistere una donna sola. Leggiamo quindi molta tristezza nella sua ammissione: “Non ho marito”.
Quando si tolgono le maschere, restiamo con la nostra nuda realtà. Ci può prendere la vergogna e la paura: il timore di non farcela a migliorare, l’imbarazzo della nostra inconsistenza. Sentendoci così deboli e fragili, sale in noi una nube di tristezza interiore, che va considerata con molta attenzione. Potrebbe anch’essa diventare un vizio: il peccato della tristezza, come lo chiamavano i padri del deserto. È un godimento perverso nel lasciarsi cadere giù, comodo e alienante perché deresponsabilizza: “Tanto… non potrò mai cambiare! Sono fatto così, come potrei cambiare?”. Così ci arrendiamo alla mediocrità, evitiamo il duro cammino del cambiamento.
Superate le tre tentazioni, la samaritana si sente finalmente liberata e redenta. Era venuta al pozzo per la necessità quotidiana dell’acqua. Adesso “lascia la brocca, va in città e dice alla gente: venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto”. Si è sentita capita, amata, salvata. Non vive più di necessità. Ha conosciuto un’altra acqua. Mai tornerebbe indietro!

 




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