Agnelli in mezzo ai lupi


“Io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio” la dichiarazione di Giovanni dice la fede che la comunità proclama. Nella liturgia si “vede”, nella vita si testimonia.
Nella preghiera si “prova”, nella quotidianità si vive ciò che nella parentesi liturgica si è “toccato”. La sintesi di questa diastole e sistole dell’esistenza credente è posta da Giovanni in una metafora che dice tutto di Gesù: l’agnello.
Ci sono animali attrezzati dalla natura a difendersi così: stimolando negli umani non la paura ma la dolcezza. Bellezza e tenerezza per prevenire e togliere l’impulso dell’attacco e della cattiveria. Proprio per la sua mansuetudine e mitezza, gli antichi sceglievano gli agnelli come vittime sacrificali nei riti religiosi. Gesù è stato un vero agnello per entrambi i motivi: la bontà di chi ha fatto bene ogni cosa e la consegna della sua vita come vittima di espiazione, in senso pieno. “Ecco l’agnello di Dio”, “Ecco colui che toglie il peccato del mondo!”. Anche il messaggio di Gesù trova nell’agnello la sintesi metaforica perfetta:
“Porgi l’altra guancia”, “ama i nemici”, “beati i miti perché possiederanno la terra”. E anche: “chi ama la sua vita la perde”, “fai del bene a chi ti fa del male”, “perdona tuo fratello”. L’atteggiamento umano che meglio traduce la metafora dell’agnello è la dolcezza e la prima immagine umana che la riassume è il bimbo abbandonato al sonno, più ancora se in braccio ai suoi genitori. Gesù infatti amava tanto i bambini e li considerava maestri dei discepoli.
La dolcezza disarma. Commuove e ispira pensieri e sentimenti di pace e amore. Contiene una sensazione quasi pulsionale che eleva al divino. “Dolce” è, infatti, l’aggettivo che il credente emozionato affianca al nome di Dio.
Tutti siamo esposti al contagio dell’indifferenza, la dolcezza ne è l’antidoto. La tenerezza è la qualità umana della vita.
C’è un’emozione che solo la dolcezza può dare: l’intima sicurezza dell’amore, come una promessa sussurrata: “Io sarò sempre con te”. Senza dolcezza non c’è accesso al mondo umano. Non rimarrebbe che la violenza. Anche il perdono è condizionato dalla tenerezza: senza questa rivoluzione interiore, il perdono è solo voluto ma non diventa reale.
La dolcezza è un altro vivere. Sappiamo bene come si diventa quando manca la dolcezza. La tenerezza è la nostra vera cura: contiene i gesti appropriati per fermare la malattia, per rimarginare le ferite, per calmare il dolore. Non è solo un modo di entrare in relazione, è una responsabilità sul mondo.
La dolcezza è sempre stata il primo strumento con cui la liturgia nei secoli ha educato il popolo ad affrontare le asprezze della vita (la miseria, la fame, la peste, il terrore delle guerre). Soprattutto il dramma della morte, l’angoscia del lutto. Per secoli è risuonato nelle nostre liturgie funebri il canto del “dies irae” stupenda poesia del realismo umano e capolavoro della dolcezza che ispira la fede: “Ricorda, o dolce Gesù, che io sono la causa del tuo viaggio; non lasciare che io sia perduto. Cercandomi senza tregua, ti sedevi stanco, mi hai redento con il supplizio della Croce: che tanto sforzo non sia vano! Ti prego in ginocchio, con il cuore a pezzi, come ridotto a cenere, prenditi cura del mio destino.
Così Dante descrive il paradiso come una “dolce sinfonia” dove il dolce canto arreca un’ebbrezza senza fine.
Per i credenti l’eucaristia è la parentesi settimanale imperdibile di divina dolcezza, come traspare dal rito e dal canto.
In questa parentesi scaturisce la forza simbolica della dolcezza che innerva tutta la settimana e la trasfigura nelle sue diverse dimensioni: l’amore della semplicità, la pratica del silenzio, l’agire onesto e giusto.
La dolcezza è il modo cristiano di essere al mondo, così come lo di dolcezza è la base indispensabile per far crescere la comunità.
Gesù manda i discepoli nel mondo come agnelli in mezzo ai lupi. Davvero un agnellino può resistere all’aggressione del lupo? Con Dio l’impossibile esiste.

 




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