Poirino 1630
Una donna che smarrisce il borsello e teme di aver perso il suo denaro. Un agricoltore che si ritrova con un animale in meno. Un padre che assiste impotente all’allontanamento di un figlio e poi si accorge di aver perduto anche l’altro. Sono esempi di vita concreta, via via più gravi, di perdite dolorose che Gesù racconta alla gente per parlare dell’amore imprevedibile di un Padre che lascia liberi i suoi figli ma anche li perde. Eppure non si dà pace, li aspetta, li accoglie e li invita alla festa del vivere insieme.
Paolo ne ha fatto l’esperienza: era un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Agiva senza saperlo, lontano dalla fede; ma la grazia del Padre ha sovrabbondato. Perdita e ritrovamento. Avviene la stessa cosa con i nostri cari. Con la morte li perdiamo. Con lo stesso dolore dei protagonisti delle tre parabole, li cerchiamo ancora, non li dimentichiamo. Gradualmente li ritroviamo e riconosciamo che non perdiamo mai coloro che amiamo perché continuiamo ad amarli in colui che è eterno e anche dentro di noi.
L’eucaristia che celebriamo è la stessa di quella che in questo medesimo luogo hanno celebrato nel 1630 i poirinesi di allora, almeno i pochi sopravvissuti della terribile pestilenza che aveva distrutto il paese. Nel settembre di quell’anno insieme all’eucaristia fecero una festa di ringraziamento per la fine di quell’incubo. Da circa quattro secoli la tradizione esclusiva della nostra città mantiene viva quella memoria, la terza domenica di settembre. La festa del camposanto continua a unire i nostri concittadini. Pur vivendo in tempi di individualismo vincente, la morte, quando è custode di un senso, e ha la forza di un simbolo, crea forti legami sociali. Un evento di estrema gravità aveva unito allora il paese nella sventura. L’eco di quella solidarietà è rimasta viva fino a oggi.
Noi siamo però immersi in cambiamenti sociali profondi che stanno modificando i significati del vivere e del morire. È da come si considera la morte, infatti, che dipende il senso che si dà alla vita. In pochi anni, con le conquiste della medicina e lo sviluppo delle scienze, è avvenuto un capovolgimento del significato del morire. La morte esiste ancora, non è diminuita la nostra precarietà, malattie inguaribili continuano a minacciare i nostri affetti. La peste del Seicento a un certo punto finì. I danni arrecati all’ecosistema potrebbero essere irreversibili. Per noi però è sempre più difficile guardare alla morte e all’invecchiamento che ce la pone innanzi. La morte non sembra più contenere una domanda, custodire un senso, che la società non sa o non vuole dare e la medicina non è incaricata di fornire. La morte è diventata inumana, assurda, insensata come la natura quando non è addomesticata. Oggi quindi moriamo più soli. Ci sentiamo più che mai perduti nella nostra precarietà mortale. Siamo meno interessati a credere a un Padre che ci cerca e ci salva. La morte perde il suo senso, il lutto assimilato alla depressione, curata da farmaci e psicologi.
La possibilità di morire all’improvviso tende a diminuire, l’agonia è sempre più lunga.
In passato si pregava di essere risparmiati da una morte improvvisa per avere modo di vivere lucidamente quel trapasso. Oggi l’ideale è una morte incosciente. La sedazione dei morenti è pratica corrente. Morire con dignità ha perso il suo significato originario. Si è capovolto il senso stesso della dignità umana. Si è sempre stati consapevoli che la dignità non dipenda dalla condizione fisica, che la persona non perda la sua dignità quando il suo corpo va in sfacelo. Oggi invece si pensa di perdere dignità quando sopraggiunge la malattia mortale. Allora, si dice, la vita non è più degna di essere vissuta. Tanto vale finirla. Il carattere sacro della vita è messo seriamente in discussione. La qualità della vita dipende dallo star bene. Questo capovolgimento oggi generalizzato testimonia il profondo malessere che la morte provoca nella società. La perdita di dignità dei moribondi è possibile solo in una concezione individualistica ed edonistica che si manifesta anche nell’indifferenza ostentata verso generazioni future.
Abbiamo un compito molto impegnativo nella festa del camposanto. Ritrovare il senso sacro del vivere e del morire per rifondare il senso dei nostri legami. Come ci insegnano i nostri concittadini del 1600, noi siamo legati gli uni agli altri e non solo perché qui abbiamo genitori, coniugi, figli e parenti. Ciò che noi usiamo quotidianamente (la lingua, la cultura, il clima, la terra...) non li abbiamo fatti noi, li abbiamo ricevuti. E dovremmo ritrasmetterli.
È la fede nel Padre misericordioso che ci chiede di celebrare questa festa con piena consapevolezza.