Il seme della Parola


Che cosa vede chi, dall’esterno, osserva un’assemblea liturgica tutta “presa” dall’ascolto della Parola proclamata? Un racconto di cronaca? La lettura di una poesia? L’esposizione di un discorso? No. L’appello di un Invisibile Presente.
La Scrittura esce dalla forma del testo antico scritto e diventa un segno vivo quando è letta, proclamata, ascoltata, come parola che interpella, che è performativa (che opera ciò che dice).
L’appello e la risposta possiedono una prodigiosa forza generativa. Creano immediatamente un legame. Chi parla lo fa perché ha ascoltato o presuppone di essere ascoltato (altrimenti parlerebbe “da solo” e la parola perderebbe il suo senso). Ascoltare, d’altra parte, non significa solo sentire ma anche comprendere. Ora comprendere è già un po’ come rispondere, perché significa essere “sintonizzati”, essersi posti nei panni dell’altro.
La parola genera quindi reciprocità: anche quando si è ripetitivi, non si comunica mai la medesima cosa. Le cose ripetute o aiutano o annoiano o infastidiscono.
La Sacra Scrittura non è, infatti, parola morta, ma testo che, ogni volta interrogato, continua a parlare, che quando è pronunciato non si disperde nel nulla ma comincia ad agire. Sfida ogni aumento di complessità, eccede ogni sua possibile interpretazione. Essa ogni volta è un appello: interroga l’assemblea in modo nuovo. Non lascia mai le cose come le trova. Non torna a vuoto, senza aver compiuto ciò che Dio vuole e aver condotto a buon fine ciò per cui il Signore l'ho mandata.(Is. 55,11)
Sono due le mense domenicali: la Parola e il Memoriale della Cena. Nella celebrazione eucaristica la Parola di Dio ha “valore nutritivo” come il corpo di Cristo: i riti performativi dell’ambone rendono corpo la stessa Parola. Nell’assemblea liturgica avviene, quindi, una sorta di “conversazione” tra l’Invisibile e il suo popolo. Dio parla e la comunità risponde: “Amen”, “Alleluia”, “Lode a Te!”, ”Rendiamo grazie.”...
Avviene in po’ come capita in famiglia, durante i pasti o quando si rientra a casa o si trova un po’ di pace, prima del riposo. Vivere in famiglia comporta il diritto-dovere della conversazione: poter fare all’altro qualsiasi genere di domanda e rispondere in modo esaustivo, parlare di sé e ascoltare l’altro, partecipare in modo attivo al dialogo e non solo chiacchierare del più o del meno. Parlando si affermano delle verità ma, al tempo stesso, attraverso lo stile della comunicazione, il tono della voce, la partecipazione del corpo, chi parla o ascolta definisce un legame con l’altro. Se dimentica chi ha di fronte, la conversazione si riduce a pura chiacchiera o diventa una “parlata” autocentrata.
Così è nella preghiera liturgica: se si dimentica o si trascura l’Altro, il rito scade immediatamente in sterile ritualismo. I segni non parlano più. Il sacerdote e i ministri ostentano protagonismo, la voce contraddice ciò che le parole raccontano, il corpo impacciato o distratto dice che il cuore è assente. Il ritualismo liturgico corrisponde alla casa-albergo; le celebrazioni brevi e frettolose fanno la pari con i fast-food sbrigativi e veloci.
Ascoltare sinceramente le persone, però, è sacrificio: l’altro domanda, invade lo spazio della prossimità, si differenzia. La parola scava un distacco, genera un vuoto necessario per ospitare la risposta. L’io deve retrocedere e fare spazio, l’egocentrismo deve essere smontato per lasciarsi trasformare.
Per i medesimi motivi, anche l’ascolto della Parola di Dio è già sacrificio eucaristico. All’offertorio non si va a mani vuote: si porta lo sforzo dell’ascolto come sacrificio personale. L’attenzione, infatti, è una vera ascesi. Nella liturgia non si rinuncia, di per sé, ai sensi ma si sospende la loro funzione usuale per esercitarli diversamente. S’impara a volgere lo sguardo, a orientare l’orecchio, a disporsi alla parola, a muovere il corpo, secondo le sapienti (e antiche) regole del rito. La distrazione si combatte, infatti, con la partecipazione liturgica. Il ritualismo si contrasta quando si entra nella celebrazione con cuore libero e aperto, disposto a lasciarsi guardare e incontrare dal Signore che parla. Sono veri sacrifici. La Parola di Dio è detta, invece, per trasformare. Non è proclamata per trasmettere informazioni, pur riguardando verità essenziali, né per produrre emotivamente un possibile senso della vita. La Parola di Dio è prima di tutto dono di una Presenza. È l’appello del Signore a me, che mi raggiunge nell’interiorità emozionale più profonda, e apre un orizzonte che sta oltre a me. Mi tocca e mi trasforma.

 




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