Ora tocca a noi


L'ultima apparizione del Cristo ai suoi discepoli chiude il periodo della permanenza di Gesù sulla terra insieme ai suoi e inaugura un'era nuova: quella della Chiesa. Ormai, sono i discepoli che devono assumere la responsabilità di annunciare la bella notizia, come venne chiamato il vangelo.
Si basarono sulle istruzioni che aveva lasciato loro Gesù e sull'assistenza di una "forza dall'alto, quella dello Spirito Santo".
Lo Spirito infatti è la presenza di Gesù (il Cristo risorto) che continua nella storia e nella vita.
Il Signore si è sottratto allo sguardo dei discepoli. Ora occorre lavorare per preparare la sua ultima venuta, senza chiedersi quando e come egli tornerà di nuovo nella sua gloria.
I discepoli guardano in alto, e invece sono invitati a guardare in terra, fra la gente. Dio non va cercato in alto, si trova in basso. Non si cammina verso di Lui verticalmente, ma solo orizzontalmente (nell'amore concreto).
L’ascensione di Gesù è la festa dell’”oltre” (il cielo) che si trova nel “dentro”.
L’attesa del Signore non va vissuta separandosi, nel chiuso di una comunità di nostalgici, ma nel mondo, destinati alle folle. “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura”. Dove c’è fede è inevitabile il dubbio ma non può essere motivo di chiusura o di scelte facili. La missione esige una «partenza»: chiesa in uscita, la chiama papa Francesco. Il discepolo non aspetta che la gente del mondo si avvicini: è lui che va incontro a loro, fino a immergersi totalmente come il lievito nella pasta. Non si tratta semplicemente di offrire un messaggio, ma di instaurare una relazione.
L’annuncio parla, infatti, di un Dio che si rivela Padre, dunque costruisce fraternità.
Il discepolo si lega alla persona del Maestro e s’impegna a condividere il suo progetto di vita. «Sarò con voi fino alla fine del tempo»: è questa la promessa, che dà al discepolo la forza di svolgere la sua missione.
Viviamo però tempi in cui non c’è più nessuna (apparente) nostalgia di cielo, dove lo sguardo è tutto rapito dal basso. Il cielo appare disabitato, conta solo la città secolare.
La fede cristiana riceve oggi dal secolarismo uno stimolo importante per proporre la scelta religiosa come pienezza dell’umano, anche in un mondo disincantato. Il nostro compito è parlare del cielo e il modo per farlo è prendere molto seriamente i nostri doveri e responsabilità sulla terra.
La fede cristiana è religione d’incarnazione: l’assunzione dell’umano comune (espressa come capacità di comunicazione con le folle) spinta oltre l'ordinaria prosperità umana, fino all’indicibile realtà del cielo.
Le parole si affollano, sotto la penna di Paolo, quando egli cerca di esprimere che cosa rappresenta il cielo: il Cristo risorto, la sua esaltazione alla destra di Dio, gli innumerevoli e incommensurabili benefici che ne derivano per noi. La preghiera dell'apostolo si fa allora azione di grazie, riconoscenza, "eucaristia", oggi quindi è anche la solennità che indica che la fede si esprime fondamentalmente come bellezza e come intima e sobria felicità. Tutto ciò che è bello e rende felici, infatti, ci fa gustare un ”oltre” che si trova nel “dentro” nelle cose, nelle esperienze ma fa cenno all’eterno, a Dio.
La fede è l’esperienza che realizza in pienezza questa meravigliosa sintesi di ciò “dentro” e ”oltre”. Questa sintesi si chiama anche speranza: il già e il non ancora, lode al Signore e impegno per la vita. Credere in Cristo è certamente l’aiuto più efficace per vivere e per vivere in pienezza, senza dimenticare ciò che ha dichiarato Gesù, nell’ora suprema della croce: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36).

 




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