Non rassegnarsi


Gesù, Marta e Maria. Una scena di premurosa accoglienza, valore primario della Bibbia. Negli ospiti sconosciuti può venirci incontro Dio stesso, ricorda il brano della Genesi dei tre viandanti accolti da Abramo.
L’accoglienza degli stranieri, che chiedono asilo, era considerata universalmente un’azione sacra. Nei miti antichi spesso la divinità si presentava nella forma dello straniero supplice. L’invito all’ospitalità era suggerito dalla certezza che i cittadini possono ricevere tanto dagli stranieri che sono portatori di specifici doni (gli “Xenia”).
L’ospite (“hospes”) tuttavia, può presentarsi e rivelarsi anche come nemico (“hostis”). Nella storia, questa drammatica alternativa è avvenuta spesso. Fraternità e ostilità, pace e guerra, accoglienza e respingimento. Viviamo oggi il lato oscuro del rapporto con l’Altro. La paura e il sospetto sono diventati oggi vissuti di massa. La sensazione dell’accerchiamento dell’ospite nemico, la diffidenza e la perdita della speranza nell’umano comune sta producendo due pericolose deviazioni: l’individualismo illimitato (“ognuno per sé”) e il comunitarismo endogamico (“Insieme contro”). La società contemporanea oltre allo straniero che si presenta alle frontiere conosce poi anche la figura dello “straniero interno”, quello che non si può né espellere né assimilare. Viviamo quindi tempi in cui la splendida esperienza dell’Altro come dono e ricchezza non può essere raccontata e raccomandata. Una parte dell’uditorio la intenderebbe subito in modo ostile, senza possibilità d’intesa. La differenza del Vangelo non produrrebbe alcuna differenza nei pensieri e negli atteggiamenti.
Capita così, a volte, anche in famiglia. La comunicazione genitori e figli (grandi) può bloccarsi. Madri e padri si accorgono che la loro parola non conta più. Le decisioni dei figli portano in direzioni distanti da quelle insegnate e testimoniate dai genitori.
Neppure questa condizione tuttavia è senza soluzioni, senza valore: “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”. Partecipare al dolore di Cristo in modo tanto radicale e prezioso (“completo”) è una forma efficace per resistere nei tempi bui e non rassegnarsi al male.
I patimenti di Cristo non sono solo condensati nel dolore lancinante della sua agonia in croce. Gesù ha sofferto, fino alle lacrime, anche durante la sua vita itinerante. Lo documentano tanti episodi evangelici. In ognuno di essi possiamo identificarsi per trovare senso e coraggio.
Gesù ha sofferto per il tradimento del suo popolo. Alla vista di Gerusalemme Gesù non riesce a trattenere le lacrime. Quel popolo che Gesù amava tanto e al quale dava molto non lo segue, sceglie strade opposte che però lo conducono al baratro. Il maestro dedicava la sua vita alla cura dei mali della gente, eppure lo chiamano indemoniato, faceva solo del bene ma la folla che pure, a tratti, era entusiasta di lui, gli preferisce Barabba…
Gesù ha sofferto per il tradimento della giustizia. Quando incontrava scene di ingiustizia (soprattutto di dolore innocente) Gesù provava nel suo stesso corpo la sofferenza che vedeva e le sue “viscere si spezzavano” dice letteralmente il verbo greco, reso in italiano “provava compassione”.

Gesù ha sofferto per il tradimento dell’amicizia. Aveva scelto Giuda come amico e così lo chiama fino all’ultima parola. Non smise mai di aspettarlo, come amico. Si era accorto molto prima di quell’orribile notte, che qualcosa del primo entusiasmo dell’apostolo stava cambiando. Non fece nulla, non lo allontanò dal gruppo. Chi ama non riesce a rassegnarsi e aspetta con pazienza fino all’estremo.
È l’indicazione per i nostri tempi difficile.
Non rassegnarsi. Resistere ad accogliere e a trattare da fratelli, in attesa che ritorni l’evidenza del bene.

 




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