Pienezza dell'umano, Gloria del divino
La scena originaria del vangelo, quella che lo apre e lo condensa, è l’annuncio di una Presenza, che Gesù chiamava il Regno: “Convertitevi e credete nel vangelo” (Mc 1,15). Dio c’è, Dio ti chiama; chiunque tu sia, apri gli occhi e volgiti a lui. L’evangelizzazione sfugge alla contrapposizione sacro-profano: non si può immaginare la missione senza pensare il mondo, la storia, il destino umano. L’invito del Signore è sempre accompagnato da segni di liberazione dal male, in tutti i sensi. L’attività di Gesù, d’altronde, è descritta nei vangeli essenzialmente come cura e guarigione. Il suo comportamento è attestazione e riflesso di quell’“Abbà” (“papà Dio”, come amava insegnare) che tratta tutti come figli e non fa distinzioni di apparenza, perché considera solo il cuore.
La verità di Dio che appare in Gesù, non oppone il cielo alla terra, il materiale allo spirituale, il visibile all’invisibile. Un’unica opposizione appare invece insuperata, quella che contrappone il presente al futuro, l’inizio al compimento, il già al non ancora. Il criterio di verifica della fede è in questa tensione, nella vita concreta e quotidiana. Non è possibile parlare del Dio che si è rivelato-nascosto in Gesù, senza parlare nello stesso tempo della persona umana, creata a Sua immagine. A causa dell’unità immanenza-trascendenza, la missione della chiesa non va quindi pensata e vissuta solo sul versante della rivelazione di Dio al mondo, ma anche come svelamento del mondo a se stesso, un mondo sperimentato come impregnato di tracce di trascendenza. La fede è anche, da subito, amore per la vita buona, bella e felice. Come il Maestro (Gv. 3,16), il cristiano ama appassionatamente la terra. Nella rivelazione, la realtà umana mostra la perfezione divina e diventa gloria: "la gloria di Dio è l'uomo vivente e la vita dell'uomo è la visione di Dio!" (S. Ireneo). Il quotidiano è il "tempo" del Regno, la vita è il "terreno" dove il Regno germoglia.
La fede cristiana riceve dal secolarismo uno stimolo importante per proporre la scelta religiosa come pienezza dell’umano, anche in un mondo disincantato. Questa purezza della fede deve però rinunciare a considerarsi come mera funzione sociale, deve prendere le distanze dalla religione civile, intesa come «la matrice indispensabile per il comune ordine civilizzato». Concentrandosi sull’essenziale eviterà in ogni modo di considerare la fede secondo i criteri mondani del marketing: Dio, il bene che garantisce la nostra migliore autorealizzazione.
La pienezza è intesa e sperimentata, infatti, come dono di Grazia. Lo ha dichiarato Gesù, nell’ora suprema della croce: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Credere in Cristo è certamente l’aiuto più efficace per vivere e per vivere in pienezza, ma solo perché la fede fa comprendere la vita come una destinazione che trascende i confini tra il nascere e il morire. La tradizione cristiana ha espresso quest’esperienza, definendola partecipazione alla natura stessa di Dio (2Pt 1,4). La patristica greca aveva parlato di theiosis, del “diventare divini”, come felice vocazione umana.
Se il cristianesimo non sarà capace di abitare in modo creativo la nuova condizione della secolarità, non potrà essere all’altezza del suo compito che ha l’incarico di adempiere e che il suo Signore ha destinato alle moltitudini (Mt 26,28): che la destinazione umana non è la morte e che, al termine della vita, saremo giudicati esclusivamente sulla nostra disponibilità alla condivisione e al dono, cioè al valore della vita umana.
La fede cristiana è religione d’incarnazione: l’assunzione dell’umano comune (espressa come capacità di comunicazione con le folle) spinta oltre l'ordinaria prosperità umana, coincidenza di immanenza e trascendenza, come indicata nel mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio.