Gesù Cristo Re dell'universo


«Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità».

Per tre volte Gesù dice: «Il mio Regno», e per due volte si preoccupa di chiarire che questo suo Regno è completamente al di fuori dagli schemi mondani: «Il mio Regno non è di questo mondo», «Il mio Regno non è di quaggiù». Con queste affermazioni Gesù non vuole assolutamente dire che il suo Regno non riguarda il mondo e le realtà presenti, bensì che il suo regno - già presente ora fra gli uomini - non trae la sua origine dal mondo e, perciò, non si modella sul suo schema di valori.
Ma l'affermazione di Gesù che più ci interessa è probabilmente un'altra: «Io sono re: per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità».
Dunque, la regalità di Cristo è completamente sottomessa alle esigenze della verità, parola che nel linguaggio giovanneo indica la verità di Dio, il suo amore per l'uomo, ogni uomo. La regalità di Gesù è sempre a servizio della verità, dovunque e comunque: non accetta mai di sottomettere la «verità» alle esigenze di una «ragion di stato», che non sia, appunto, la verità, si trattasse pure della propria sopravvivenza.
Nel suo breve e serrato dibattito con Pilato, Gesù afferma un'altra cosa importante: «Chiunque è dalla parte della verità, ascolta la mia voce». Per comprendere la regalità di Gesù e per divenire suoi sudditi (e potremmo aggiungere per correttamente annunciarla e festeggiarla) occorre aver scelto la verità. Vi sono uomini che sono «dalla parte della verità» e uomini che invece sono «dalla parte della menzogna». Non è semplicemente questione di bugie ma di un atteggiamento di fondo, di una scelta di valori. Queste due possibilità contrapposte che si aprono davanti all'uomo - e che Giovanni esprime molto efficacemente in termini di origine («dalla verità o dalla menzogna») - sono nel racconto del processo incarnate dai due personaggi che si fronteggiano: Gesù e Pilato. Da una parte Gesù che si consegna pienamente nelle mani della verità e non si sottrae ad essa neppure per salvarsi la vita. Dall'altra Pilato che invece rappresenta un potere politico che serve la verità ma «non oltre un certo prezzo»: un potere che ritiene di avere valori più importanti da salvare. Per tre volte Pilato riconosce l'innocenza di Gesù e la dichiara pubblicamente, e per tre volte cerca di salvarlo. Tuttavia lo condanna alla croce. Di fronte all'esigenza di salvare se stesso - o l'ordine pubblico - il suo amore alla giustizia e alla verità viene meno.
Uomini (e organizzazioni) come Pilato possono sembrare amanti della verità, ma se si guarda con attenzione appare che si tratta di un amore subordinato. C'è di che interrogarci. Non a caso l'evangelista conclude la discussione sulla regalità e sulla verità con queste battute: «Pilato domandò: che cosa è la verità? Detto questo, uscì di nuovo…» (18,38). Il procuratore pone la domanda giusta, ma il suo animo è privo di impegno, distratto, fondamentalmente assente. Nel suo rapido passare oltre («detto questo, uscì…») mostra di non essere un vero ricercatore della verità.

Nell’eucaristia, la storia si incontra con l’eternità, diventa luogo abitato da Dio. Diventa tale anche la geografia dei luoghi della terra e dell’universo e i credenti sono costituiti sacerdoti della creazione. Abbiamo maggiore consapevolezza del senso del tempo più che del senso dello spazio. Anche la geografia, però, è “luogo teologico”. Lo splendore del mondo naturale e la terra come prodotto evolutivo offrono alla coscienza credente le tracce evidenti della tenerezza di Dio e fanno sgorgare l’adorazione e la riverenza riconoscente della fede. La terra è celebrata come comunità sacra, nel cosmo si contempla la cosmogenesi. Il gesto solenne dell’accogliere tra le mani i frutti della terra e di elevarli al cielo è l’atto sacerdotale liturgico dei battezzati.
Più cresce la venerazione verso la creazione più la comunità che prega riconosce che quella misteriosa bellezza e potenza è affidata all’umanità perché la coltivi e la custodisca con umiltà e amore. L’affettività ridestata dal rito si traduce in tenerezza verso ogni creatura. La natura diventa mistero sacro che avvolge, venerazione pensosa verso il mistero dell’amore. Nel mistero di Cristo, per mezzo di cui: “Ogni cosa è stata fatta e senza di cui neppure una delle cose fatte è stata fatta” (Gv 1,3) e nella ritualità dei “frutti della terra” si riconosce l’origine e il sostentamento della vita, “luce degli uomini” (Gv 1,4).
Questi frutti provengono anche dal lavoro umano. I fedeli che vanno alla liturgia portano con sé il mondo, l’opera della creazione e l’attività umana perché tutto sia santificato. I bisogni quotidiani non sono dimenticati ma sono portati in chiesa, pregando per tutte le necessità concrete. Le occupazioni e le preoccupazioni non sono lasciate alla distrazione ma sono trasfigurate in preghiera. Lavoro e studio diventano quindi luoghi del dono di una creatività che inserisce il credente nel mondo come collaboratore di Dio. Per questo il lavoro racchiude sempre un’attesa di liberazione: la domanda di essere orientato verso qualcosa di più grande, che riguarda la vita umana e il suo senso. Il rito sacerdotale dell’offerta colloca l’attività umana ben oltre l’utile e il materiale. Il pensiero di Dio può essere nella vita lavorativa e scolastica come il lievito nella pasta, come la perla nel campo. Così la dignità dell’attività umana è difesa da ogni abuso e appare chiaro che “avvilire il lavoro è un sacrilegio”
L’amore è debole ma vince sempre.

 




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