Piccoli semi di fede


Nel Natale del 1223 san Francesco decise di organizzare una rappresentazione viva della nascita di Gesù. Voleva “vedere” con i suoi occhi, il racconto dell’inabissarsi di Dio nella povera storia umana e comprendere come e dove trovare senso e speranza per il mondo e la chiesa del suo tempo. Tre anni prima Francesco era partito per la sua missione di pace in Palestina. Si era fermato anche a pregare a Betlemme. Tornato in Italia, non riusciva a togliersi il pensiero di un Dio che diventa bambino, umile, fragile, indigente. Più ci pensava, più si commuoveva fino a piangere.
Il presepe compie dunque 800 anni. Quel 25 dicembre giunsero a Greccio frati da varie parti e arrivarono anche donne e uomini dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. C’era anche la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. «La gente accorsa manifesta una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale» (commenta papa Francesco, ricordando quel presepe).
E oggi? Quel che portiamo dentro forse è tanta tristezza, confusione, paura. Ci spaventa la nostra precarietà, l’instabilità, l’incapacità a risolvere i nostri problemi. Non sono solo i fatti della cronaca e delle guerre a lasciarci sgomenti. Sono anche la fragilità dei nostri affetti, l’inconcludenza dei nostri pensieri, la mediocrità delle nostre vite. Continua a salire l’aggressività, si inasprisce il linguaggio, si fatica a costruire fraternità. Anche nelle case c’è molta confusione. Molti adulti sanno poco come stare accanto ai figli se non “lasciandoli liberi” che facciano le loro esperienze, giustificandoli quando commettono errori. Testimoniano così ai giovani che sopportare sacrifici per un valore o uno scopo è un atto di debolezza, non di nobiltà. Fanno in modo che i loro figli facciano esperienze evitandone i costi, facendoli sopportare da altri, dai genitori stessi, prolungando all’infinito la loro protezione, senza corresponsabilità. Si vuole una vita senza sacrifici ma così si diventa più fragili rispetto alla complessità della vita, indebolendo i legami di amicizia che fanno sperimentare che noi siamo felici non quando ci “autorealizziamo” ma quando condividiamo.
Il Natale però è altra cosa da questi tristi pensieri. È voltare pagina. È sentire la sproporzione tra l’inaffidabile coerenza umana e la sicura promessa di Dio, tra la violenza orrenda della croce e la grazia inaudita della risurrezione.
Il Natale di Gesù non è il natale del buon cuore. A questa fantasticheria non crede più nessuno. Per sollevarci non è sufficiente né il silenzio del nostro smarrimento né il rumore delle nostre proteste. Ci vuole la svolta del Natale: Dio che ama per primo, senza calcolo e a fondo perduto. La fede cristiana è l’atto con cui si riconosce che la violenza interna alla società non è eliminabile da noi ma da Dio solo. L’orrore della violenza non ci cambia il cuore; in genere ci rende più cattivi. I primi discepoli hanno rimediato al loro errore di aver abbandonato il Signore a morire da solo, non al vederlo spirare ma di fronte alla sorpresa della sua apparizione come vivente. È la risurrezione che fa violenza alla morte e la vince. Il Natale cristiano non è un appello alla nostra buona volontà. Se tutto si risolvesse con la nostra capacità di mediazione o nel fare un po’ più di giustizia, Dio sarebbe solo colui che ci avverte di gestire bene questi rapporti. Dio fa molto di più. Cambia la situazione. Per questo anche il Natale 2023, come quello voluto da san Francesco, ci porterà ancora un eco di “gioia indicibile” per la certezza, confermata da una lunga storia, che Dio è fedele e fa la differenza.
C’è un solo modo per vivere questo santo Natale: lasciare qua e là piccoli semi di fede dai quali nascono sempre meraviglie.

 




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