"Chi non ama è omicida"
Gesù non perde occasione per parlare del Padre, rivelandone ogni volta la meraviglia della misericordia, che è il vero volto della sua potenza. Oggi ci svela che, innanzitutto, Dio tiene molto a ognuno di noi. Ci conosce e ci segue in tutti i particolari. Scruta il vestito del ricco e sa come veste il povero: vede il ricco vestito di porpora, guarda l’uomo vestito di piaghe. Conosce la tavola del ricco e conta a una a una le briciole date a Lazzaro. Con sguardo amorevole e attento attende le parole che Lazzaro spera di sentire. Guarda dove dorme. Guarda i cani sulla porta. Tutto ciò che vede, dell’anonimo ricco e di Lazzaro, è riportato all’eterno. Lo sapeva già bene Mosè, che Dio conosce il dolore dei suoi figli. Lo ricorda oggi Amos che all’onnipotente non sfugge nulla dell’”orgia dei buontemponi" e della miseria degli arroganti.
In che cosa consiste il peccato del ricco? Nella ricerca del lusso? Nella cultura del piacere? Negli eccessi della gola? No. Il suo peccato è pensare solo a sé, non accorgersi di chi è alla porta. Semplicemente: nel non vederlo. Che ne sa lui...? Non un gesto, non una parola, non una briciola. Ha lasciato il mendicante solo con i cani. Il suo peccato è l’indifferenza: come se l’altro non esistesse. Il ricco non fa del male al povero. Solo, non fa nulla. Ma fare nulla per chi ha bisogno è di ridurre a nulla l’altro: «Chi non ama è omicida» (cfr. 1 Gv 3,15). A tanto si spinge la testimonianza di un apostolo che ha ascoltato a lungo il maestro, cogliendo bene il suo pensiero, lui, il discepolo amato.
L’eternità inizia qui, l’inferno è il prolungamento dell’abisso dell’indifferenza narcisistica. Il peccato separa dagli altri e fa morire. L’inferno inizia nella vita centrata su di sé. «Chi non ama, rimane nella morte» (1 Gv 3,14). Per sempre.
In cosa consiste la bontà del povero? Lazzaro è salvato non per la sua bontà ma perché non avendo nessuno, aveva Dio solo, era abbandonato nell’amore suo. L’aldilà non fa rendere esplicito quello che l’aldiquà pareva nascondere. Sì, perché per Gesù esiste davvero un futuro, un eterno in Dio. Ma è preparato dalla vita di qui, dove ciò che conta è “tendere alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza” (2° lett.). In questa buona battaglia, la fede raggiunge la vita eterna.
Il ricco è senza nome, perché spesso il denaro diventa come la seconda identità di una persona, domina la sua coscienza, detta le leggi, ispira i pensieri. Vivendo in quel modo, quell’uomo, ha perso ogni dignità.
Il povero invece ha un nome, (Lazzaro, un nome caro per Gesù, quello di un amico). Luca non usa mai nomi propri nelle parabole, solo qui fa un’eccezione. Un nome. Cioè un valore, un peso, una dignità! Lazzaro vive e muore con dignità. Il racconto della parabola dà così modo a Gesù di formulare il suo messaggio più importante: la forza della vita è la fede. Alla fede non serve il miracolo. Non si crede per i miracoli: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi”. Basta la Scrittura per non perdere dignità e salvezza.
«Dio abita una luce inaccessibile», dice Paolo (1 Tim 6,16), eppure è accanto fisicamente e sempre a ognuno di noi. Dio abita nel povero, dice l’evangelo; anzi nelle piaghe del povero.
Lazzaro alla porta ci ricorda Silvio nel suo letto della malattia, le piaghe del mendicante sono l’avanzare della morte. La dignità di Lazzaro è la virtù eroica documentata di Silvio.
La dignità e il miracolo della sua giovane vita sono anche il messaggio che la comunità credente di Poirino accoglie da questo giovane concittadino. Avere qui le sue spoglie mortali ci rende più facile ricordarci di lui e della nostra missione, ogni giorno.
La dignità del morente è la profezia alla quale siamo chiamati. Si è capovolto il senso stesso della dignità umana. Si è sempre stati consapevoli che la dignità non dipende dalla condizione fisica, che la persona non perde la sua dignità quando il suo corpo va in sfacelo. Oggi invece si pensa di perdere dignità quando sopraggiunge la malattia mortale. Allora, si dice, la vita non è più degna di essere vissuta. Tanto vale finirla. Il carattere sacro della vita è messo seriamente in discussione. La qualità della vita dipende dallo star bene. Questo capovolgimento oggi generalizzato testimonia il profondo malessere che la morte provoca nella società. La perdita di dignità dei moribondi è possibile solo da una concezione individualistica ed edonistica che si manifesta anche nell’indifferenza ostentata verso generazioni future. Lo si vede nell’ecologia e nell’economia. Abbiamo un compito molto impegnativo nel dono di santità di Silvio: ritrovare il senso sacro del vivere e del morire per rifondare il senso dei nostri legami. Il popolo poirinese che ci ha preceduto ci ha lasciato due eredità di valore: la scuola Amaretti e l’istituto geriatrico. Silvio riassume e rilancia le due missioni. Sono il carisma della nostra parrocchia.