La meraviglia del Natale
Tra i tanti insegnamenti controcorrente che ci vengono dal Vangelo uno dei più originali riguarda ciò che rende grande una persona. Secondo Gesù il modo più sano ed efficace di “mettersi in mostra” è “sparire dalla vista”, nascondersi. Per essere grandi agli occhi di Dio, infatti, occorre farsi piccoli. Non c’entra la falsa modestia ma piuttosto l’esercizio continuo di svuotarsi della propria autosufficienza per lasciarsi guidare dall’amore. Dio ci ama e ci vuole liberi, come lo sono i bambini che dicono quello che sentono, che non si tengono per sé la verità, che non hanno la preoccupazione di apparire o la pretesa di sapere. Anche i piccoli del vangelo sono le persone più libere. Se la Chiesa deve cambiare per continuare a parlare al mondo, deve cercare di trasformare se stessa, di liberarsi da pesantezze e contraddizioni. Deve imparare dai bambini, come insisteva Gesù.
La meraviglia del Natale sta in un Dio che sceglie di farsi bambino. In questo modo il divino si trasmette a tutta l’umanità, coinvolge tutto l’umano, oltre i confini delle culture e delle religioni.
La sapienza antica ha sempre considerato i bambini (i figli) il dono più bello e più importante della vita. Oggi la generazione, entrata nel dominio scientifico, ha perso consenso. Ciononostante, il bimbo donato alla vita è ancora la figura esemplare e la via sicura del ritorno all’umano, di cui abbiamo urgente bisogno.
Le cose più importanti della vita, infatti, le impariamo dai bambini e le abbiamo imparate da bambini. Nell’infanzia sono racchiusi, con un’evidenza particolare, i tratti essenziali dell’umano. Il mondo dei bambini è il luogo naturale della meraviglia e della magia. I simboli dell’amore provengono tutti dalle esperienze nella nostra infanzia: sorridere, abbracciare, cullare, nutrire, proteggere...
Il bimbo che cresce ricorda anche un altro tratto essenziale dell’umano. Perché un bambino nei suoi primi anni impara così tanto e cose tanto difficili (camminare, parlare, pensare)? Perché è capace di stupore e di meraviglia. Gli adulti imparano proporzionalmente molto meno. Hanno perso l’incanto della sorpresa.
Nel mondo secolarizzato di oggi, poi, il corpo del neonato (e, prima, il corpo del concepito) è una delle poche cose sacre rimaste. Nel neonato, l’umano appare nella sua massima fragilità e vulnerabilità. La sua debolezza ci tocca e ci commuove. Risveglia la sensibilità e porta alla tenerezza, trasmette dolcezza e gentilezza. La violenza che non si arresta davanti al bambino e lo travolge nella sua furia distruttiva, tocca il fondo dell’inumano. L’uccisione di un bambino ci fa sentire perduti.
Il bambino che nasce da’ senso alla vita. Il lavoro è importante, la carriera è bella, il denaro è indispensabile. Queste cose però sono solo dei mezzi. Se diventano fine, non danno felicità, saturano di stanchezza e riempiono d’inquietudine. Un bambino da accogliere e da accudire è invece uno scopo di vita.
La debolezza estrema del bambino ha una forza assoluta sugli adulti: la donna che diventa madre non è più la persona di prima. Lo stesso si può dire, con forse minore evidenza, del padre. Il neonato trasforma radicalmente anche i nonni. Sappiamo descrivere scientificamente la nascita e la crescita del cucciolo umano ma il bambino che viene al mondo non cessa di essere un mistero che ha il potere di cambiare le persone.
I bambini in mezzo a noi (a messa, alla catechesi, in oratorio) ci risvegliano alla fede, ci
incoraggiano a «non guardare la vita dal balcone» come ha ricordato il 24 novembre scorso il papa ai giovani. Se guardi negli occhi un bambino senti che la speranza aguzza «lo sguardo lungo» e chiede di impegnarti. Ti ritorna la speranza. Ti senti riportato alla fede dei primi cristiani: semplice, esplicita, coraggiosa. Cominciando però da noi, dalle difficoltà quotidiane: le divisioni, le diffidenze, le polemiche senza fine. Nel Bambino di Betlemme anche la fragilità ha un suo senso perché Dio non abbandona, ti solleva come un bimbo.