Una comunità generativa
Nella vita e nelle parole di Gesù è chiaro che Dio non è l’"Assoluto", la "Causa di sé", il “Motore immobile” dei filosofi, ma è il Padre. All'inizio di ogni cosa non c'è l’'Essere" e nemmeno il "Vuoto", ma la generazione.
Dio è Padre perché genera il Figlio, Dio è Figlio perché generato (“Generato, non creato”). La loro generazione non è chiusa in loro ma è persona: lo Spirito Santo, che “dà la vita” (come si professa nel Credo). La prima parola di Dio non è “farsi da sé”, non è neppure “emanazione” (dare parti di sé) ma “generazione”, che significa “realizzare se stesso nell’Altro”. Per questo “Dio è amore” (1Gv 4,16) secondo l’ultima, definitiva rivelazione di Dio.
Questo amore è grande, infinitamente più potente di ogni affezione umana.
Si chiama “agape” (carità) ed è Dio stesso. Per questo ha la virtù di redimere non solo chi lo dona, come già insegnava la filosofia antica (Platone) ma di salvare anche chi lo riceve. Questo amore è la via d’uscita dalla vulnerabilità umana più tragica: il peccato.
Nel cristianesimo l’amore è costituito come l’unico criterio di vita.
Noi non possiamo evitare di consumarci.
Nasciamo nella massima impotenza e moriamo perché attaccati e vinti.
Questa estrema vulnerabilità non ci toglie però la libertà.
Possiamo decidere per chi e per che cosa consumarci.
Il lume spiega metaforicamente il mistero del dono: la cera si scioglie e si consuma e solo così produce luce, calore e bellezza.
Consumarci producendo luce: ecco il nostro programma di vita.
L’illuminazione è quindi sempre associata al perturbamento (“consumarci”) perché scuote le persone dalla rassegnazione alla mediocrità e alla monotonia delle cose, dal torpore della rimozione delle verità scomode, dall’adeguamento al “come fan tutti”.
La luce si associa al sale, non al miele. “Non fanno bene alcune fantasie su un amore idilliaco e perfetto, privato in tal modo di ogni stimolo a crescere” (Papa Francesco AL n. 135).
La testimonianza cristiana, pur perseguendo l’affabilità e la pace con tutti (Fil 4,5), non è mai irenica e “pacifica” (Lc 12,51). È destinata, piuttosto, a portare una “spada”, a suscitare anche conflitti.
Si diventa luce solo nel travaglio quotidiano e nelle limitazioni della peccabilità.
“L’amore che non cresce inizia a correre rischi, e possiamo crescere soltanto corrispondendo alla grazia divina mediante più atti di amore, con atti di affetto più frequenti, più intensi, più generosi, più teneri, più allegri”(AL n. 134)
Dio però non ignora il corpo sensibile, ma, nello Spirito, lo fa ardere, accende di luce anche i sensi, perché non li vuole spenti (a tanto si spinge, nella linea dell’incarnazione, l’inno liturgico: “Accende lumen sensibus”), scalda e scioglie ciò che è assopito e alienato, rigenera ciò che è apatico e senza desiderio.
Compito della testimonianza cristiana è di essere “luce” e “sale” (Mt. 5,13): riportare alla luce le verità celate nelle esperienze quotidiane della vita.
“Chi sa che l’altro può cambiare spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno” (AL n.115)