Il re giusto


Per comprendere correttamente il titolo che la liturgia attribuisce oggi al Cristo chiamandolo “re”, bisogna riferirsi alla tradizione biblica del Dio re-pastore. Le tribù d’Israele volevano un re, come tutti gli altri popoli. I profeti ribadivano che non ce n’era bisogno, che sarebbero state più le perdite dei vantaggi, perché il re lo avevano già ed era il Signore! Ma il popolo insisteva e alla fine cedettero. Tennero ferma però almeno una cosa: il modello del futuro re d’Israele non doveva essere il guerriero, il dominatore, il sovrano, ma il re-pastore. Uno che veglia, con una cura particolare, sui piccoli e sui deboli, sulle "sue pecore", vittime innocenti e indifese di ogni sorta di oppressione, sfinite dalle prove della vita. Vero re è il loro difensore accreditato. Questo era precisamente l’ideale di Gesù, che non ha mai smesso di proclamare in parole e in azioni. I poveri hanno accolto con entusiasmo la predicazione di quest'uomo diverso dagli altri che si metteva al loro fianco, solidale con le loro condizioni esistenziali, di cui denunciava l'ingiustizia. Al contrario, i benestanti, coloro che si adeguavano al sistema e alle sue ingiustizie o non esitavano addirittura a trarne dei vantaggi personali, hanno visto nelle sue parole e nelle sue azioni, delle intollerabili prese di posizione sovversive.
La regalità che Gesù ha vissuto e predicato è spiegata da lui come il concreto e quotidiano stile di vita di ogni persona. Si può riassumere così, traducendo il vangelo di oggi: ovunque qualcuno è capace di un gesto gratuito verso un altro o gioca la sua esistenza per amore di altre persone, lì si rivela Dio e la morte retrocede.
L’amore senza calcolo, come è quello verso i poveri, gli emarginati, i rifiutati (quelli cioè che non possono restituire, anzi creano problemi e difficoltà di ogni genere) è un segno di eternità! Questa forma d’amore è l’unica risposta saggia e vera di fronte al dramma e al mistero della morte.

 




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