La fede di Pietro, speranza nostra
Matteo si premura di annotare che la fede di Pietro non viene da «sangue e carne», ma dal Padre. È dono. È solo la luce che viene da Dio che è in grado di far comprendere il mistero profondo di Gesù.
Dire che Gesù è Figlio di Dio è ancora qualcosa di incompleto, addirittura qualcosa che può dare adito ad equivoci. È la Croce, l’affidamento totale a Dio, che toglie ogni possibilità di errore. È per questo che Gesù «ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo». La fede è un dono un dono che non può essere offerto ma solo ricevuto, senza merito né calcolo. Il credente riconosce che la fede appartiene a Dio solo.
Trasmettere la fede è in assoluto “dare ciò che non si ha”. Il dono della fede esprime il massimo della gratuità. L’atteggiamento umano più proprio, infatti, è l’adorazione: portare la mano alla bocca (“ad os”) e tacere. Chi sosta in adorazione scopre che tutto è dono, tutto è grazia. Si sta davanti a Dio come il fiore ai raggi del sole. La pianta si nutre di luce: attraverso le foglie i fotoni la raggiungono fin dalle sue radici e la rivestono di bellezza e di profumo.
Siamo mendicanti di luce. “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse (Is 9,1)”.
“L'abbandono in cui Dio ci lascia è il suo modo proprio di accarezzarci. (…) Egli resta lontano da noi perché se si avvicinasse ci farebbe sparire. Aspetta che andiamo verso di lui e spariamo” (S. Weil)
La fede non offre una spiegazione del dramma della vita ma un’immagine: l’immersione nella morte e risurrezione del Signore. Non uno schema di vita ma un cammino di libertà: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Non una regola che costringe ma la figura di un Dio che ha preso carne per vivere e morire di una morte cruenta ma redentrice.
Viviamo tempi difficili per la fede. Abbiamo perduto il sostegno di quegli orientamenti del costume e della cultura che accompagnavano le persone a elevarsi al di sopra della natura (che è lo stato tragico in cui vince la forza travolgente delle pulsioni). Non è più riconosciuto da tutti che l’umano sia più della chimica del suo organismo. Neppure la percezione e la definizione del corpo sono certe e sicure. All’analisi scientifica risultano solo organi, cellule, sinapsi, neurotrasmettitori.
Sembra non esista più un linguaggio con cui dire Dio. Il mondo stesso, anzi, è sempre più descritto e vissuto, senza cause e senza fini, frutto del caso e regolato dalla necessità.
L’annuncio della fede pare stroncata nel nascere dall’indifferenza di chi dice: “Senza Dio si vive lo stesso”. Questa disarmante constatazione, però, stabilisce le disposizioni, in un certo senso più idonee, nei confronti della fede. Il Dio cristiano, infatti, esige il linguaggio della gratuità, del dono, della grazia e si diffonde con la dinamica dell’incontro e dell’amore, più che con quello del convincimento e del proselitismo.
Il dono della fede introduce alla più grande beatitudine, quella dei poveri nello spirito. Essa riassume l’atteggiamento del credente: fede è affidarsi totalmente a Dio.
Il dono della fede instaura però un legame incorruttibile: la vita eterna. In Cristo trova piena risposta il desiderio di eterno che traspare in ogni esperienza umana. Accettando la vita eterna, infatti, il cristiano prende una decisione, carica di conseguenze per sé e per l’umanità: fare “risuscitare” la terra, anticipare nell’oggi della storia l’avvento del Regno. L’umano si mette in azione, in virtù di qualcosa che è più-che-umano. Il presente è trasfigurato nella prospettiva, che già si è messa in moto, di un “oltremondo”. La storia della fede ha testimoniato lo splendore che ha raggiunto la santità delle donne e degli uomini che hanno pregato con fede: “Venga il tuo regno”. Non hanno solo implorato “Signore, Signore” (Mt 7,21 ) ma si sono dati da fare (Gv 6,27). Sono stati impazienti nel desiderio che il suo progetto diventasse assoluto ed effettivo: “Sia fatta la tua volontà”.
La difficoltà della trasmissione della fede deriva dalla crisi della comunicazione della speranza. Non si giunge alla fede mediante una dimostrazione razionale delle sue ragioni, ma attraverso la possibilità di far luce sulla storia concreta dell’umanità. Individuare le tracce della trascendenza, della venuta di Dio, coincide con il riconoscimento dei motivi di speranza, che si svelano nella libertà del suo dono.