Come insegnava Gesù


La meraviglia è la più efficace precondizione dell’apprendimento, della prodigiosa volontà di imparare che è un tratto evidente dell’infanzia. L’esperienza della meraviglia è condizione essenziale per l’efficacia dell’annuncio cristiano. Sola essa dispone al cambiamento della vita. I bambini sono posti da Gesù come modelli per chi intende percorrere la strada del Regno, per la loro spontanea apertura allo stupore che è la risorsa all’origine della loro straordinaria attitudine ad apprendere. Il bambino impara il nome delle cose perché è incuriosito da ciò che vede, che tocca, che sente e non solo perché qualcuno gliene parla e le spiega.
Lo stupore è il contrassegno di una presenza sorprendente, la quale appare però essenziale per comprendere il senso dell’esperienza (umana, emozionale, liturgica...) che si sta compiendo. Un’esperienza sorprende quando manifesta un appello che invita a procedere oltre. La vita acquista senso grazie a questa anticipazione che apre il cammino o, dicendolo con il linguaggio cristiano, la vita umana è possibile solo in forza della grazia.
Il primo annuncio non comincia, per questo, subito con le parole. Neppure Gesù insegnava cominciando dalle parole: la sua predicazione avveniva con “fatti e parole” e i gesti avevano sempre come conseguenza la meraviglia e lo stupore (della guarigione, della parola performativa, del fascino dell’incontro, del miracolo dell’abbondanza). Nella diffusione del Vangelo, la meraviglia svolse un ruolo fondamentale per il nuovo genere di vita che i cristiani realizzarono, per la simpatia che godevano da parte dei pagani (At. 4,4).
La metodologia del cammino di fede sarà pertanto ampiamente simbolica, intrecciando i percorsi dello stupore con il convincimento del ragionamento. La via simbolica evoca il desiderio e la nostalgia della trascendenza attraverso le cose e i legami essenziali che li uniscono all’esperienza emozionale umana: il lume, l’olio profumato, il legno, il fuoco, il soffio. Il simbolo evoca, richiama, rimanda, affascina e incanta.
L’annuncio della fede (nella catechesi e nella liturgia) ha come unico fine che Cristo si renda presente nel tempo e nella storia, così come si è reso presente duemila anni fa. Si tratta di cogliere Gesù non come una semplice idea o come un valore morale, ma in quanto persona concreta che salva perché è presente nella vita.
I prodigi nel nome di Gesù (che nel racconto evangelico assumono la forma del miracolo) sono la vita trasformata da questo incontro.
La bellezza del cristianesimo non è, però, mai facile: essa compone insieme l’amabilità del rapporto con la decisione per ciò che è ritenuto degno (la “diaconia” con la “parresia”).
In una società dalla cultura sensitiva, la via della bellezza sembra la più efficace nell’unire grazia e semplicità. Da dove scaturisce, infatti, la forza di attrazione della bellezza? Perché ciò che è bello attira l’amore? (Perché la passione erotica invita all’agape?) La bellezza riproduce nel frammento qualcosa che lo trascende. Quanto vi è di bello, di buono e di vero nel mondo, un viso attraente, una musica, un’azione nobile (semplicità) rimanda enigmaticamente a qualcos’altro (grazia). Nell’incontro tra due persone che si amano, l’anima di entrambi vuole qualcos’altro che non è capace di esprimere (Platone). Nel suo alludere ad altro, nel suo inviare a una sovrabbondanza di senso, la bellezza unisce, genera armonia e concordanza, allo stesso modo della passione amorosa che cerca l’unità e la corrispondenza con la persona amata.
La perfezione cristiana consiste nell’agape, che non è una teoria o una conoscenza ma una pratica di vita. Le opere dell’amore tuttavia non si misurano dai loro effetti pratici, ma acquistano il loro valore in rapporto alla capacità di segno che contengono.
Non esiste quindi solo la bellezza dell’arte (il tutto nel frammento) o la bellezza della liturgia (che fa segno all’invisibile presenza), esiste anche la bellezza della vita spesa nell’amore.
Nel materialismo e consumismo di oggi, stupisce vedere persone e famiglie che cercano, poco a poco, di modellare il loro stile di vita secondo un'altra logica, passando dall’ansia della competizione e dalla diffidenza del confronto a un'“economia graziosa” dove ci si orienta all’uso dei beni materiali, prendendo a riferimento i valori della vita di coppia, della relazione amorosa, della vita comunitaria. La fiducia, il desiderio della comunione, l’incontro e la riconciliazione diventano le parole chiave della ricostruzione “utopica” (quella che osa sfidare le “regole”) e “eucaristica” (quella crede nella forza dell’amore) di una nuova economia, dove si cerca scambiare beni e prestazioni secondo altre regole di calcolo. I rapporti contrattuali sono necessari ma non possono esaurire ogni relazione sociale: è possibile, invece, tentare di combinare le dimensioni contrattuali (del lavoro, del “mercato”, della sicurezza) con i valori non negoziabili della persona, perché solo nei legami d'amore le persone possono riconoscersi e incontrarsi. Il conflitto è ineliminabile dalle relazioni umane (anzi è necessario per migliorare la società); l’economia “graziosa” cerca di inventare stili di vita in cui il conflitto non generi esclusione.
I cristiani non hanno il monopolio della logica graziosa ma hanno la responsabilità di aiutare a riconoscerla, di poterla nominare, riportandola a Colui che ne è l'autore. La presenza dei dimenticati e dei poveri è sempre il sintomo di un deficit di logica della grazia.
Non c’è etica senza bellezza, afferma la trascendenza della fede; non c’è bellezza senza etica, risponde l’immanenza della fede.

 




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