Dio è amore


Nella vita e nella predicazione di Gesù era all’opera un grande sogno: costruire dell’umanità una sola famiglia, in un’unica, immensa casa. I nuovi modelli di autorità, nella comunità dei discepoli, s’ispiravano alle strutture della famiglia. I genitori amano i loro figli senza distinzione; se concedono “privilegi”, lo fanno per il figlio debole o malato. I legami familiari s’instaurano attraverso il reciproco servizio. Un padre prova immenso dolore quando i figli si dividono, non si amano, arrivano a detestarsi. Nulla è più lontano dal cuore di un padre che la divisione dei suoi figli. Gli insegnamenti di Gesù avevano costantemente come modello nella vita di casa, come la maggior parte delle sue parabole.
A Pietro Gesù chiede il servizio di governare bene la sua casa: di sciogliere e di legare (Mt. 16,19), come avviene in ogni famiglia. Eppure, nei confronti dei costumi familiari del tempo, Gesù opera un profonda frattura: i vincoli di sangue vanno relativizzati di fronte alle esigenze del Regno (Mt. 10,37). La casa di Dio, infatti, non ha confini. Gesù chiama i discepoli e li allontana dalla loro famiglia. L’ultimo comando di Cristo (il risorto) li inviava nel mondo intero.
La chiesa comprese quindi di essere un popolo aperto a tutti gli altri popoli e che la comunità, in fedeltà al suo Signore, non avrebbe mai dovuto comportarsi come una setta. Gesù rimase sempre solidale e legato al popolo dei poveri e dei semplici e ne condivideva anche i suoi valori essenziali: l’amore reciproco, l’affetto e l’umiltà. Per chi non ha ricchezze, queste sono le risorse fondamentali per sopravvivere. Gesù però intese l’affetto in senso estremo, operando una triplice radicalizzazione: è amore fino all’estremo (si ama per primi, senza pretendere reciprocità, e fino alla fine). È amore verso tutti senza distinzioni (eliminando l’idea stessa di nemico). È amore gratuito in senso totale e interiore (“Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” Mt. 6,3). Gesù trasmetteva l’amore attraverso la sua vita, il suo modo di parlare, di stare in mezzo alla gente, di perdonare l’adultera, di incontrare i malati e gli emarginati, di accettare di farsi toccare dalla peccatrice. Chiamò “amico” Giuda, nell’atto in cui lo tradiva.
L’amore praticato da Gesù superava la reciprocità, fino ad apparire impossibile agli stessi discepoli. Più di una volta, essi rimasero disorientati e increduli davanti alle parole del Maestro: “Allora non conviene sposarsi» (Mt. 19,12).
Un amore così non poteva essere ottenuto per mezzo di leggi inasprite o di sforzi sovrumani, ma esclusivamente tramite una nuova considerazione della vita. “Agli uomini è impossibile, ma non a Dio” (Mt. 19,26). Gesù proponeva una nuova via di umanizzazione che presupponeva l’impegno umano di lasciare agire Dio stesso nella vita del credente. Chiamava quella via “beatitudine” (Mt. 5,1-12). Gesù portava amore in un mondo che non lo conosceva. Questo amore presupponeva l’esperienza quotidiana della misericordia. Da soli gli uomini falliscono: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv. 15,5). Non ha senso, quindi, separarsi dai peccatori, se nessuno è buono tranne Dio.
Lo straordinario dell’amore di Gesù lo si contempla nella sua morte in croce: “Tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto” (Lc. 23,48). Non si poteva che esclamare: “Veramente quest'uomo era giusto”. La scena più inguardabile nell’amore diventa “spettacolo”. La morte più vergognosa e cruenta, inventata dalla ferocia del potere, diventa speranza, addirittura bellezza (come documenta la storia dell’arte).
Nel corso dei secoli, moltitudini di sofferenti si sono rispecchiate nel volto del crocefisso, in quello sguardo hanno trovato una consolazione che pareva loro negata. L'uomo dei dolori ha insegnato a gente senza nome come la sofferenza possa essere portata e accettata, perché dalla sofferenza può scaturire il rinnovamento del mondo. La sua esistenza, totalmente segnata dal dono di sé, dal servizio ai fratelli, sempre tesa alla comunione verso l’estraneo e addirittura verso il nemico ha proclamato che gloria di Dio è l’uomo che vive. Con il suo patire egli ha testimoniato che il Padre osserva la miseria del suo popolo, sente il suo grido e conosce le sue sofferenze. Non è dato di sapere che l’amore come dono puro è possibile se non nell’offrirsi in croce di Gesù. Questo significa, per i cristiani, professare che Gesù è il Signore: amare come Lui è la salvezza.
Nella vita affettiva e familiare si sperimenta l’amore come sorgente della vita. L’amore è “l’altro che mi dà la vita”. La morte è sempre percepita come ingiustizia che minaccia radicalmente il senso della vita. Noi troviamo senso solo in ciò che resiste alla morte. L’amore è indegno della morte. L’amore vuole l’eterno. Noi non riusciamo ad amare a tempo. Dire “Ti amo” significa affermare: “Voglio che tu viva”.
Come poteva una donazione così pura e totale, come quella di Gesù, rimanere preda della morte? ”Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto” (At. 2,24). Dopo la morte in croce, dopo i tre giorni del silenzio, dopo la scoperta della tomba vuota, alcuni discepoli, qua e là, incontrarono il risorto: lo stesso Gesù di sempre, anche se non più con l’identico corpo. Non lo distinsero dai tratti esterni ma lo riconobbero attraverso l’amore: la voce amata del maestro, lo spezzare il pane davanti ai discepoli di Emmaus, l’occhio attento del discepolo che Gesù amava. La vita di Gesù era riconosciuta come una vita d’amore e in questo senso aveva rivelato Dio. Giovanni, giorno quasi al termine della sua lunga vita, condensò tutto ciò che ricordava di Gesù e che conservava nel cuore, in una sola parola: “Dio è amore” (1Gv. 4,8). Chiamò questa professione di fede, il “comandamento nuovo” (Gv. 13,34), ultimo e definitivo. A una considerazione più attenta, il suo modo di amare non era che lo specchio del Mistero divino che Gesù raccontava: una comunione di Persone, una compresenza di Padre, Figlio e Spirito Santo! Gesù può allora parlare come persona plurale: “noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv. 14,23).
Ovunque si esprime un pensiero, gesto, un atto di amore disinteressato, Dio è presente. Chi entra in questa comunione diventa tempio di Dio, perché in lui Dio dimora. Immergersi nell’amore di Dio significa contrastare la morte. Questa è la buona notizia cristiana: speranza che l’amore possa avere l’ultima parola. Questa speranza fonda tutto l’agire e la responsabilità del cristiano. Dall’unico comandamento dell’amore “dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,40). La stessa Parola di Dio può essere intesa soltanto se riferita alla pratica della carità (Lc. 13,26)
La pastorale centrata sull’affetto è alimentata dal trionfo moderno della religione secolare dell'amore . Oggi infatti l’amore è un bene così raro da diventare “oggetto di culto” (ma non di pratica); si alimenta così una vera e propria “religione dell’amore” che non ha bisogno di misurarsi con le dure esigenze della formazione della coscienza cristiana: nel disorientamento della complessità della vita gli individui cercano conforto nella rivalsa dell'”amore”. La comunità si chiude in sé, nel campanilismo delle sue versioni antiche e nuove; diventa diffidente, timorosa e anche ostile verso il mondo, al quale è comunque destinata, pena la sua totale insignificanza, come sale senza sapore (Mt. 5,13).
Alla testimonianza cristiana negli ambienti di vita, questo tipo di parrocchia, preferisce il mondo emozionale dei suoi gruppi; alla povertà di senso che insidia la vita quotidiana rimedia con la vita immaginaria del “volersi bene”; alla pesantezza dell’impegno contrappone la leggerezza del tempo libero, magari passato in parrocchia.

 




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