Il fascino di Dio


Che cosa vale e conta nella vita? Secondo il saggio Salomone non ci son dubbi: “avere un cuore docile”, un cuore che ascolta. “Cuore” nel linguaggio biblico è l’interiorità emozionale e affettiva della persona, là dove, secondo il linguaggio di Paolo, si colgono le tracce della conformità “all’immagine del Figlio”.
Di questa profondità, nel racconto delle due parabole, nessuno sembra accorgersi. Nel nostro mondo pare proprio così: la maggioranza delle persone sembra non avvertire alcun desiderio di possedere il tesoro, di acquistare la perla. Per numerosi altri alla fede sembra che si riservi appena un rimasuglio della vita.
Per Gesù invece il Regno è tutto. Dal momento che, allora come oggi, è il denaro che conta, Gesù per farsi capire non esita a usare metaforicamente proprio i verbi del denaro: vendere e comprare. Quando si tratta di denaro, le persone si mobilitano con passione: “I figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16).
La parabole evangeliche di oggi ci provocano: “Chi è Gesù per me?”, “in che cosa io credo? A che cosa dedico la vita?”, “Che cosa considero mia fortuna?”, “di che cosa voglio diventare ricco?”.
La risposta a noi sembra immediatamente chiara: “Certo, m’interessa la fede!”.
Alla maggioranza delle persone (secondo i dati raccolti dalla sociologia religiosa) accade di pregare e di riconoscere in Dio la verità che dà senso alla vita e la libera dall’angoscia e dalla tristezza. In quei momenti Dio appare la cosa più importante della vita. La giustificazione portata alla discontinuità della frequenza ai riti religiosi non riguarda spesso un difetto nelle convinzioni religiose ma la difficile conduzione delle necessità della vita che si impongono sempre come urgenti e quindi inesorabili. La fede, che pur si continua a professare, non appare in grado di incidere sulle priorità della vita, né sull’equilibrio tra i valori professati e le urgenze delle occupazioni quotidiane.
Dio è importante, ma la vita è piena di cose urgenti che rompono i nostri fragili equilibri e oscurano quelle che pur diciamo importanti. Alla fine a Dio lasciamo solo il rimasuglio di noi, anche perché le cose concrete esercitano su noi un enorme fascino. Quanto meno è reale l’incontro personale con il Signore e la disponibilità a lasciarsi concretamente interpellare in ogni ambito della vita, tanto più gli impegni urgenti della vita distraggono da quelli che pure sono considerati doveri importanti.
Dio però non si accontenta di così poco: così poco è peggio che niente.
Una religione di profilo basso, senza passione e senza vita, (secondo la denuncia già dei profeti biblici), non è in alcun modo una liberazione, è solo un inganno.
Le parabole del “vende e compra” ci fanno immaginare i volti e le emozioni di chi scopre il tesoro e intuisce il valore straordinario di una perla. Quella medesima meraviglia, quella stessa determinazione appassionata dovrebbe trasparire sul nostro volto quando pronunciamo il nome di Dio, inestimabile tesoro della vita.
La fede nell’annuncio di Gesù assume la figura di una conversione: si abbandona il “nervosismo” postmoderno (e i suoi affanni inconcludenti), in favore della scelta dell’unica cosa che conta: il regno di Dio e la sua giustizia.
L’inizio, lo spunto di questa conversione, è sempre una fascinazione, una meraviglia. L’incontro con Gesù, se è meno di questo, non è un fatto vitale. Sarebbe anche indegno di ciò che noi diciamo di Dio.
Ogni settimana, ogni giorno abbiamo bisogno di un tempo di incanto, nell’eucaristia e nella preghiera quotidiana, nella cura delle nostre relazioni e nella bellezza delle nostre amicizie.

 




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