Onora il padre e la madre
Caratteristica rivelatrice del nostro tempo è il narcisismo: la celebrazione dell’Io. Ne deriva una concezione della libertà come dispiegamento dell’Io e una pratica orientata all’autorealizzazione. La vita per farsi umana, invece, ha un bisogno vitale e costitutivo della presenza dell’altro. Questa verità emerge con ogni evidenza nell’infanzia.
Si può diventare figli solo dove la vita si umanizza. La crisi del processo di umanizzazione nell’individualismo che corrompe l’amore familiare è denunciata dall’aumento delle nuove patologie dell’età evolutiva. Esse documentano come la vita, quando appare sganciata dal senso dato dai legami primari sicuri, diventa pesante e insopportabile. Non è solo questione dell’affetto o delle cure di cui i bambini hanno un bisogno totale.
La trasmissione dell’umano ha bisogno di un legame stabile e sicuro, garanzia della possibilità di una vita buona. Gli aspetti radicali del vivere umano si realizzano nei fatti prima ancora di essere compresi in maniera riflessa. Anzi, la successiva comprensione a opera del pensiero riflesso può prodursi unicamente sulla base del primo sapere trasmesso dalle forme immediate dell’esperienza.
L’educazione è la consegna del "segreto" della vita dei genitori: la trasmissione e la testimonianza della verità della loro esistenza, il frutto della loro esperienza e dei valori condivisi e realizzati. Il segreto della vita sarà ciò che i figli conserveranno, riconoscenti e indelebile nella memoria, quando i genitori non ci saranno più; è il loro vero testamento.
La speranza che i genitori trasmettono ai figli ha una densità di significato che può essere compresa come metafora religiosa e come base umana della fede.
Nella società secolarizzata il pluralismo delle opinioni prescrive di non proporre ad altri le proprie convinzioni: ognuno è libero nel suo pensiero. Dai genitori il figlio si attende, invece, la verità. I bambini aiutano così i genitori a percepire il significato religioso dell’atto della generazione e nella pratica educativa. La fede, infatti, non si aggiunge dall’esterno alla cultura.
Il comandamento di Dio: “Onora il padre e la madre” comporta molto di più della semplice adesione alle loro indicazioni. Significa, infatti: “Considera tuo padre e tua madre le persone che Dio ti ha messo accanto perché tu possa riconoscere di essere solo una creatura”. L’obbedienza, in realtà, è resa a Dio. Possono sorgere, infatti, situazioni in cui non è giusto obbedire agli uomini, come risposte Pietro: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At. 5,29).
Senza il riferimento a un orizzonte simbolico condiviso, l’obbedienza è vissuta come sottomissione e il comando come dominio. La secolarizzazione, operata dalla modernità, ha oscurato e anche negato questo legame simbolico: ha laicizzato l’educazione. Si è così scavato un vuoto profondo. Si è aperta una crisi inedita dell’autorevolezza e della legittimità del compito genitoriale. Non si tratta ormai di prese di posizioni ideologiche di qualche pensatore che contesta la “famiglia tradizionale”, ma di una nuova condizione, diffusa e, a tratti anche drammatica, in cui i genitori, pur sapendo di dover educare, non riescono a farlo. Un figlio potrebbe, infatti, rivolgersi ai genitori con un atteggiamento di sfida: “Perché io dovrei seguire le indicazioni che voi mi date e che non piacciono a me ma a voi?”, “Perché dovrei rinunciare a me per seguire voi?”, “Perché affidarmi al volere degli adulti?”. Se i genitori non sapessero rispondere, oppure se conoscessero solo l’imposizione autoritaria e violenta, l’educazione non sarebbe più neppure pensabile.
Non si può educare “a vuoto”, senza valori, costumi e tradizioni. Viviamo il tempo del pieno compimento dell’annunciata morte di Dio: l’educazione è totalmente sganciata dalla fede. Senza Dio, però, il mondo non ha più il suo ordine e il suo senso. Senza Dio, in definitiva, non c’è possibilità di orientare la virtù dell’obbedienza a un orizzonte trascendente ma solo a un adeguamento contingente.
Il pensiero laico, che avverte il vuoto della legittimazione del compito genitoriale e conosce la possibilità del fallimento dell’educazione, cerca con determinazione e coraggio vie d’uscita che non comportino il nome di Dio. Il rischio però è di finire per contrapporre educazione e amore: “Genitori così delegittimati devono fare appello alle loro risorse proprie per assumere il lavoro d’educazione (…). La difficoltà è più grande di quanto appaia, perché tutto avviene come se i genitori fossero così diventati i responsabili dei limiti che essi impongono ai loro figli. Non potendo più riferirsi spontaneamente a un’esigenza terza, condivisa da tutti, essi si attribuiscono implicitamente la responsabilità piena e intera del disamore apparente che essi infliggono loro. Si comprende come essi cerchino di evitare questo equivoco, lasciandosi distrarre dal compito di educare, divenuto così ingrato” (LEBRUN J-P) Ma non è l’educazione il più grande atto d’amore, che abilita il figlio a conquistare la libertà e l’autonomia? Non merita per questo la più larga gratitudine?