Parole pasquali, di sangue e di carne


Viviamo al tempo dell’individualismo, dove i legami si allentano e ci si sente sempre più soli e sperduti. Incontrarci e parlarci è il modo che abbiamo per rendere il mondo comune, fraterno, umano. La chiesa non è tale se non è fraternamente rivolta al mondo: un cattolicesimo che sia per tutti anche se praticato da una minoranza. Nei decenni dopo il Concilio le comunità hanno fatto progressi. Siamo diventati più consapevoli e capaci di esprimere meglio le cose di sempre. Ora però è più difficile: dobbiamo dire anche cose nuove. L’Intelligenza Artificiale, la realtà virtuale, le enormi possibilità della scienza, l’esplodere dell’aggressività umana, infatti, hanno aperto un mondo inedito. Il cattolicesimo non è soltanto religioso, è anche umano e sociale: deve “estrarre dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).
Propongo alla vostra attenzione tre compiti che trovo più urgenti, consapevole che a Pasqua le parole che si dicono devono essere concrete e pratiche, fatte di sangue e di carne, come il corpo del Crocefisso.
1) Vincere la paura, costruendo fiducia. La storia, questa nostra storia attuale, è il luogo in cui Gesù, come avvenne con i discepoli di Emmaus (Lc 24), si accosta al nostro camminare e ci parla. Smarriti e soli, dopo la tragedia del Calvario quei discepoli sembravano fuggire dal presente, si sentivano stranieri nel loro tempo, in un lutto definitivo, senza speranze.
Quei discepoli sono immagine nostra. La loro storia si ripete. Il contrario della fede non è l’incredulità ma la paura che rinchiude nel cenacolo. L’incredulità coincide con la paura:
«Perché avete paura, uomini di poca fede?» Mt 8,26. C’è Pasqua quando si sperimenta la liberazione dalla paura, quando cioè si riprende ad avere speranza. Dovresti poter guardare la chiesa (la parrocchia) e sentire che esiste la possibilità di un mondo vivibile, nel presente e nel futuro. Perché però il vangelo sia credibile, come via per tutti, occorre qualcuno che gli dia concretezza storica. Questo è il compito di chi celebra la Pasqua: vincere la paura creando fiducia. Questa speranza va innanzitutto immaginata, pensata possibile, anticipata, per poterla desiderare con un’intensità tale da renderla reale. I cristiani vivono questa speranza nella divina liturgia. Nel rito la sentiamo, nella vita la realizziamo.
2) Impegnarsi in politica. Noi non cerchiamo un altro mondo perché questo è brutto, ma speriamo che questo mondo, per la cui salvezza Gesù ha dato la vita, veda il tempo della sua liberazione. Quotidianamente, la preghiera dei credenti insiste perché questo “tempo” si avvicini: “Venga il tuo Regno!”. Qualcosa deve affiorare nel presente a mostrare che qualcosa di nuovo è già in movimento. La fede fa cose diverse dalla politica e ha obiettivi più alti (la vita eterna). Della politica, tuttavia, non può fare a meno. Il servizio politico è decisivo per la cura dell’umano, la pratica delle giustizia, la salvaguardia della natura, la sicurezza e il benessere dei cittadini. Quindi anche per la testimonianza del vangelo. Senza il politico, lo spirituale intorbidisce nell’indifferenza per la storia, finendo per lasciare il mondo al suo destino. Senza lo spirituale, il politico rischia di finire al servizio dell’utile e dei vantaggi di parte. La profezia evangelica s’intreccia (senza compromettersi) con le grandi questioni politiche, come il lievito si mescola nella pasta. I cristiani non si accodano a quanti denigrano la politica. Pregano, discutono e s’impegnano perché si scelgano e si sostengano buoni politici, i quali cerchino, nelle diverse soluzioni possibili, l’unico traguardo: il bene comune. Il compito politico è spesso indiziato di impotenza e ipocrisia. L’insegnamento cattolico tuttavia l’ha sempre indicato come la forma di carità più impegnativa e importante. Una parrocchia che non si preoccupasse e non formasse la comunità al valore politico, verrebbe meno alla sua più alta tradizione, con grave danno per la fede, che tenderebbe a ridursi a devozione individuale fino a essere sale insipido che serve a nulla (Mt 5,13).
3) Trasmettere la fede. Il tempo pasquale è anche il periodo dove tradizionalmente si celebrano le tappe della Iniziazione Cristiana. Queste celebrazioni continuano a essere feste popolari e coinvolgono le famiglie allargate. Molti genitori però chiedono (pretendono) alla parrocchia un sacramento (l’eucaristia) che essi non frequentano, alla quale quindi non danno valore. Mandano così ai figli un messaggio contraddittorio che ostacola l’educazione della fede, la quale invece ha bisogno di adulti credibili. Diventa così normale che bambini e ragazzi aspettino per il giorno della loro prima comunione e della cresima, (almeno come capita di sentire) non la gioia, unica e inconfondibile, della fede ma il fascino e l’attesa dei regali, che riceveranno da familiari e parenti. La trasmissione delle fede è sostituita dalla dipendenza dei consumi (per lo più tecnologici). Ha vinto ormai la società commerciale. Respingere l’adeguamento sociale oggi, per la fede e per l’educazione, è questione di vita o di morte. Le comunità cristiane sono impegnate nello sforzo sovrumano di occupare il vuoto lasciato dalla crisi della crisi dell’educazione e nell’offrire occasioni di reale impegno e grande significato umano. Non si tratta solo di preparare eventi (celebrazioni, iniziative) che per un giorno tocchino le emozioni ma di orientare i pensieri e le pratiche (nella formazione dei genitori, per esempio) per affrontare con chiarezza le sfide di oggi.
Questa è la fede che smuove le montagne. Questa è la speranza che oggi ci vuole.

 




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