L'obbedienza è una virtù?
La crisi drammatica delle relazioni familiari è una crisi del processo di umanizzazione della vita, è una conseguenza della corruzione del codice dell’amore. Essa opera su un doppio versante. Nella vita della coppia, la domanda “L’amore può durare?” mette in dubbio che il legame, scaturito dalla libera scelta di fedeltà, possa sempre diventare storia. Nell’educazione familiare, l’immane sforzo richiesto ai genitori li porta spesso a domandarsi: “E’ ancora possibile educare?”. La cultura sembra impotente nel fornire risposte.
L’educazione è una delle costanti preoccupazioni delle famiglie. Non si cresce alla dimensione umana e alla statura del credente senza di essa. Tutti lo sanno. Oggi sta maturando una consapevolezza nuova di questa responsabilità. Le difficoltà tuttavia sembrano insormontabili.
Nella vita cristiana, come nelle culture antiche o moderne, il bambino comincia a “esistere” nel riconoscimento della sua unicità e dei suoi diritti, quando riceve il nome. Quando Gesù afferma che i nomi dei discepoli “sono scritti in cielo” (Lc. 10,20), intende dire che essi sono entrati nella nuova realtà del Regno, la fede. Nella Bibbia il nome indica la natura della persona, il suo valore unico e irripetibile, la sua vocazione. E’ Dio che “fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome” (Is. 49,1). E’ Dio che lo ha “scolpito sulle palme delle [sue] mani” (Isaia 49,15). Per questo ogni creatura è unica e preziosa ai suoi occhi, perché è sempre degna di stima e di amore (Is. 43,4).
Non solo il nome, ma anche l’educazione è indisgiungibile dalla fede. Non esiste educazione, secondo le parole del rito, che non sia anche educazione nella fede.
L’educazione presuppone, infatti, obbedienza ma questa non è interpretata come pura conformità ai voleri degli adulti, ma come adesione a un ordine di cose ritenute buone giuste. Diversamente, come potrebbero i figli liberarsi dal sospetto che le indicazioni dei genitori siano solo conseguenza delle loro manie o proiezione dei loro desideri?
Il comandamento di Dio: “Onora il padre e la madre” comporta molto di più della semplice adesione alle loro indicazioni. Significa, infatti: “Considera tuo padre e tua madre le persone che Dio ti ha messo accanto perché tu possa riconoscere di essere solo una creatura”. L’obbedienza, in realtà, è resa a Dio. Possono sorgere, infatti, situazioni in cui non è giusto obbedire agli uomini, come risposte Pietro: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At. 5,29).
Senza il riferimento a un orizzonte simbolico condiviso, l’obbedienza è vissuta come sottomissione e il comando come dominio. La secolarizzazione, operata dalla modernità, ha oscurato e anche negato questo legame simbolico: ha laicizzato l’educazione. Si è così scavato un vuoto profondo. Si è aperta una crisi inedita dell’autorevolezza e della legittimità del compito genitoriale. Non si tratta ormai di prese di posizioni ideologiche di qualche pensatore che contesta la “famiglia tradizionale”, ma di una nuova condizione, diffusa e, a tratti anche drammatica, in cui i genitori, pur sapendo di dover educare, non riescono a farlo. Un figlio potrebbe, infatti, rivolgersi ai genitori con un atteggiamento di sfida: “Perché io dovrei seguire le indicazioni che voi mi date e che non piacciono a me ma a voi?”, “Perché dovrei rinunciare a me per seguire voi?”, “Perché affidarmi al volere degli adulti?”. Se i genitori non sapessero rispondere, oppure se conoscessero solo l’imposizione autoritaria e violenta, l’educazione non sarebbe più neppure pensabile.
Non si può educare “a vuoto”, senza valori, costumi e tradizioni. Se non è più il figlio ad aderire ai valori e alle norme simboliche, che regolano la vita di una famiglia e di una collettività, sono i genitori che finiscono per adattarsi alla legge stabilita dal capriccio del figlio. Se crolla l’autorevolezza, non rimane che far appello alla negoziazione (tra finti pari) e al contratto. Alla famiglia non resta che un ruolo affettivo: proteggere il bambino più a lungo possibile dai traumi generati dalla vita collettiva. Viviamo il tempo del pieno compimento dell’annunciata morte di Dio: l’educazione è totalmente sganciata dalla fede. Senza Dio, però, il mondo non ha più il suo ordine e il suo senso. Senza Dio, in definitiva, non c’è possibilità di orientare la virtù dell’obbedienza a un orizzonte trascendente ma solo a un adeguamento contingente.
Il pensiero laico, che avverte il vuoto della legittimazione del compito genitoriale e conosce la possibilità del fallimento dell’educazione, cerca con determinazione e coraggio vie d’uscita che non comportino il nome di Dio. Il rischio però è di finire per contrapporre educazione e amore: “Genitori così delegittimati devono fare appello alle loro risorse proprie per assumere il lavoro d’educazione (…). La difficoltà è più grande di quanto appaia, perché tutto avviene come se i genitori fossero così diventati i responsabili dei limiti che essi impongono ai loro figli. Non potendo più riferirsi spontaneamente a un’esigenza terza, condivisa da tutti, essi si attribuiscono implicitamente la responsabilità piena e intera del disamore apparente che essi infliggono loro. Si comprende come essi cerchino di evitare questo equivoco, lasciandosi distrarre dal compito di educare, divenuto così ingrato” (LEBRUN J-P) Ma non è l’educazione il più grande atto d’amore, che abilita il figlio a conquistare la libertà e l’autonomia? Non merita per questo la più larga gratitudine?
L’umanizzazione è fondata sulla virtù dell’obbedienza, intesa e vissuta come la massima espressione dell’amore.